Dentro il surreale backstage dell'ultimo show di JW Anderson
Outfit pazzeschi, quadri di Rembrandt e tabagismo
21 Giugno 2022
Jeremy French
Jonathan Anderson è un uomo imponente, credo sfiori il metro e novanta, eppure si muoveva tra il backstage e la passerella della sua sfilata con levità, distribuendo sorrisi e indicazioni con voce gentile e ferma ai collaboratori che lo circondavano. Alcuni di loro si occupavano del PR e stavano passando in rassegna le sedie che correvano lungo la passerella serpentina, verificando l’esattezza della disposizione dei segnaposto. Altri andavano incessanti avanti e indietro, con in mano fogli e fogliettini e parlando attraverso auricolari neri: liste di look, di nomi, di sample. Fa un po’ impressione pensare a quanta importanza conservino ancora i fogli volanti in molti backstage di sfilate, dove la memoria e l’organizzazione dei look sono tutti affidati a risme di carta stampata ed elenchi di nomi. La prima cosa che si nota di un backstage sono i dettagli mondani: elastici, forcine, bottigliette d'acqua, fili dei caricatori, asciugacapelli. Una serie di oggetti banali che sembrano del tutto contrapposti allo spettacolo della moda e del lusso - e che invece ne costituiscono i mattoni essenziali. La location della sfilata è una ex-fabbrica dall’aria diroccata, che svuotata dai suoi macchinari e dominata dal silenzio alacre di tecnici, operai, team di design e via dicendo, pare quasi una chiesa. Non è una messa, però quella che si viene a celebrare qui - solo uno degli appuntamenti più attesi della Milano Fashion Week.
Dietro la passerella degli enormi tubi neri entrano da una finestra e ricadono come tentacoli a terra, soffiando aria fredda all’interno dai loro bocchettoni. Una donna bionda in un paio di stupendi short di JW Anderson ne dirige la posa dicendo ai tecnici che «Jonathan li vuole proprio così» - e in effetti la loro forma ricorda i bordi arrotondati delle scarpe e delle borse che a distanza di un paio d’ore sfileranno davanti gli occhi degli alti dignitari della moda europea. Nel frattempo, dietro la tenda che nasconde il backstage, una stanza le cui pareti sono fatte solo di un sipario nero, che al suo interno, come una scatola cinese, contiene una seconda area delimitata da paraventi altrettanto neri in cui i modelli si cambiano, il team del make-up finisce di truccare i modelli e raduna i propri strumenti in marsupi trasparenti che serviranno a breve durante il first look. I modelli, magri, alti e dritti come spighe di grano, con forcine d’argento nei capelli mossi ad arte, vagano tra il tavolo del buffet e l’esterno fumando sigarette al riparo dal sole.
Conclusi i preparativi preliminari arriva il momento delle prove. Jonathan e il suo concilio ristretto siedono in prima fila, gambe accavallate, occhi fissi come aquile sulla passerella. Dopo che Pascal, un DJ di Ibiza che si occupa della soundtrack, dà la sua luce verde per la musica la prova inizia. I modelli, ancora nei propri abiti, con le forcine nei capelli e con ai piedi le scarpe che indosseranno per lo show iniziano a camminare per la sfilata. Jonathan li guarda uno per uno, facendosi aria con un ventilatore portatile, girandosi ogni tanto per comunicare le proprie note a una sua collaboratrice completamente bardata di nero, quasi fosse una tunica, con tanto di maschera multipla e cappello da baseball, che non pare avvertire il caldo ma che fa sudare tutti gli altri. «More fast», sussurra a proposito di una ragazza che indossa una camicia asimmetrica, mentre la luogotenente scrive qualcosa accanto al nome del modello. «Be careful with that shoe», dice ancora riferendosi alle slides ricoperte di cristalli indossate da un altro modello e la matita della donna torna a correre sulla carta.
Il suo atteggiamento è posato, il suo sguardo acuto e composto, sorride leggermente mentre parla con il suo team – l’unica traccia di un pensiero che si manifesta quando si morde l’unghia del pollice osservando un dettaglio lontano. Quando la prova finisce il piccolo gruppo si riunisce a parlare e discutere. «We’re about 80% there», conclude poi Jonathan. Nel frattempo, nello spiazzo antistante alla fabbrica, vengono piazzati grandi cubi azzurri su cui, subito dopo, alcuni modelli si siedono in posa in pose che ricordano ora La Sirenetta di Edvard Eriksen, ora il Fauno Barberini. Jonathan esce a scattare le foto, evidentemente soddisfatto del risultato, mentre dall’interno iniziano a tuonare brani della colonna sonora di cui riconosco immediatamente il Peer Gynt di Grieg remixato con dei bassi che fanno tremare i vetri del vecchio edificio. A quel punto noto uno dei miei dettagli preferiti: Jonathan indossa un paio di Middle English di Aurora Shoe – forse la scarpa laceless che mi piace di più e che meno mi aspettavo di vedere nel mezzo della Milan Fashion Week. Dopo tutto, comunque, great minds think alike. Dopo gli ultimi preparativi, le porte si aprono. Mentre nel backstage i modelli si schierano contro la tenda nera pronti per il first look, circondati da sciami di fotografi e con i make-up artist che sorvegliano la loro pelle come sentinelle, ritoccando questo o quel punto con un tocco dei loro pennelli, i ragazzi giocano coi loro vestiti – uno di loro, vestito da una rigida cappa gialla che associo immediatamente a Spongebob, salta facendo sobbalzare tutto l’outfit. Un altro, che è quello che aprirà la sfilata, finge di stringere il manubrio di BMX attaccato al suo maglione surrealista. La donna in nero dirige il backstage come fosse un’orchestra e, schierati i modelli, inizia a girare con un cartello che dice Silence, guests are inside. Il chiacchiericcio di modelli e fotografi si riduce subito a un brusio.
Considerato il caldo e la confusione, io decido di girovagare un altro po’ per la passerella ancora vuota, curiosando tra i segnaposto: leggo i nomi di Anna dello Russo, di Marc Forne, di Bryan Boy, di Emily Ratajkowski, di Hanan Besovič di @ideservecouture e anche di Pamela Anderson – e questo, onestamente, è il nome da cui rimango più impressionato. Ancora non mi è chiaro se fosse quella Pamela Anderson o un’omonima, fatto sta che anche avendola cercata con lo sguardo più tardi non sono riuscito a vederla. Nel frattempo iniziano ad arrivare gli ospiti: facce note e ignote, sconosciuti più o meno illustri, famosi e buyer. Una delle poche facce che riconosco è quella di Guglielmo, che l’anno scorso ha lavorato con Jonathan e con Moncler per il cortometraggio Veronica di Luca Guadagnino. Usciamo fuori a fumare una sigaretta insieme a Stephanie Glitter, che per l’occasione sfoggia una chioma rosa e un micro-tailleur di Moschino. Alla fine, dai gesti silenziosi dello staff, percepisco che lo show sta per iniziare – tutti rientrano e si siedono ai loro posti.
Dato il mio amore per i punti di vista privilegiati e un poco nascosti, chiedo a Pascal Moscheni di guardare lo show dall’alto della sua consolle. Davanti a noi si para un muro di fotografi e i modelli che sfilano durante lo show paiono quasi piccoli e lontani. Il resto dello staff in consolle si sventola per il gran caldo finché tutti i modelli non escono insieme e Jonathan fa il suo breve saluto. Dopo di che tutti gli ospiti escono, trattenendosi a chiacchierare a piccoli gruppi, mentre la stampa corre all’ingresso del backstage a raccogliere gli statement di Jonathan che, vuole il caso, io arrivo troppo tardi per sentire. Nel backstage Jebi Labemika, con indosso dei favolosi occhiali da sole e un paio di stivali da cowboy, scatta foto al backstage evidentemente divertito. Poco fuori dal backstage, Jonathan si fa foto con Emily Ratajkowski e Anna dello Russo, che poi si allontanano dalla piccola folla dei fotografi per parlare tra loro. Fuori, una distesa di influencer, editor e modelli continua a circolare – esondando lentamente sulla strada, dove macchine nere passano a raccoglierli per portarli al prossimo show. La frase più ripetuta della serata rimane, in una dozzina di lingue diverse: «Ci vediamo stasera al party?» La risposta è immancabile: «Sì, certo. Se sopravvivo alla cena»