La moda fatta in laboratorio
Il futuro del lusso può essere coltivato in vitro?
14 Giugno 2022
Ieri, LVMH ha acquisito una quota di minoranza nell’azienda israeliana Lusix, che si occupa di diamanti creati in laboratorio. «Le implicazioni di questo investimento, sia per Lusix che per il segmento dei diamanti coltivati in laboratorio, sono profonde», ha detto a WWD il founder e presidente dell’azienda Benny Landa. A maggio, invece, è giunta la notizia che sia Leonardo DiCaprio che il gruppo Kering hanno investito in VitroLabs, un’azienda californiana che produce cuoio in laboratorio a partire da cellule animali che vengono moltiplicate in un ambiente isolato ricco di nutrienti e, dunque, senza l’uccisione di veri animali. Sempre Kering, insieme ad adidas e Stella McCartney, hanno investito nel Mylo™ Unleather, un cuoio creato a partire dal micelio mentre già l’anno scorso Gucci ha presentato le prime sneaker prodotte con il Demetra, un materiale bio-based ultra-circolare che dovrebbe sostituire il classico cuoio. Nel marzo dell’anno scorso invece Hermès ha annunciato un investimento nella start-up Mycoworks, che produce sempre cuoio a partire dai funghi, mentre lo scorso agosto fu Frank Ocean, nel lanciare il suo brand Homer, a fornire la stampa e il pubblico con dettagliati documenti su come i diamanti creati in laboratorio fossero tanto legit quanto quelli naturali. Per citare Agatha Christie, «due indizi sono una coincidenza, tre indizi sono una prova» e l’attenzione che il lusso ha rivolto verso i materiali di lusso lab-grown fa pensare che il prossimo problema dell’industria della moda sarà quello di produrre in massa e soprattutto legittimare la vendita di prodotti di lusso creati in laboratorio.
È chiaro che ciò che rende vendibili e raccomandabili prodotti come diamanti e cuoio “coltivati” in laboratorio è la loro sostenibilità, l’innovazione che promettono, il riscatto definitivo che garantiscono a un’industria della moda che nel corso degli ultimi vent’anni ha dovuto progressivamente rinunciare all’uso di quelle stesse materie prime su cui aveva costruito il proprio prestigio: il cuoio, le pelli esotiche, le pellicce, i diamanti e le gemme, la seta. E se è vero che il recupero di questi materiali è spesso poco etico, specialmente per quanto riguarda pelliccia e diamanti, è anche vero che il tradizionale paradigma del lusso si è costruito per secoli proprio sulla loro rarità e sulla difficoltà del loro reperimento. Ma è chiaro che in un mondo in cui anche il cotone che non è organico rischia di essere, metaforicamente, “insanguinato” da preoccupazioni o abusi etici, e in cui persino le fibre sintetiche devono provenire da bottiglie di plastica riciclate e rifiuti per non evocare l’immagine di spiagge inquinate e fauna marina agonizzante, anche per pelle animale e diamanti serve trovare alternative meno problematiche e impattanti. Allo stesso tempo, per una clientela del lusso più tradizionalista, potrebbe essere difficile accettare che un certo anello o un costoso collier di diamanti sia in qualche misura artificiale. Lo stesso può dirsi del cuoio mushroom-based: la cliente di Hermès a cui sarà data l’opzione di acquistare una Birkin sarà felice di pagare dai 7000 ai 10.000 euro per una borsa di pelle non animale? E se i prodotti in pelle coltivata in laboratorio costeranno di meno delle loro controparti in cuoio, saranno visti come altrettanto prestigiosi e desiderabili?
La questione non è secondaria. Un’intera sezione del sito web di Homer è dedicata a giustificare la legittimità dei diamanti creati in laboratorio – e lo fa anche con parole convincenti: «Il risultato è autentico. Non una replica di un diamante, né una stretta approssimazione, né una pietra scintillante di sostanza simile. Ogni diamante viene tagliato, lucidato e ispezionato per soddisfare gli esigenti standard di Homer prima di essere classificato in modo indipendente dall'International Gem Institute. Il prodotto finale è un diamante puro fino agli atomi». Confrontando due report di Bain relativi all’industria dei diamanti nel 2019 e nel 2021, si nota che la quantità di diamanti prodotti in laboratorio non è cresciuta anno su anno, attestandosi tra i sei e i sette milioni di carati. Allo stesso tempo però le capacità produttive stanno aumentando e l’intero segmento sembrerebbe essere pronto a diventare la vera grande alternativa per il mass market ai diamanti tradizionali di cui, tra parentesi, non sono stati scoperti significativi nuovi depositi negli ultimi trent’anni come scriveva Forbes qualche anno fa. In entrambi i report, comunque, ci si riferisce ai diamanti prodotti in laboratorio come a un'opzione per il mercato di massa e per la gioielleria di moda - come a implicare che un certo segmento posizionato molto in alto nel mercato non intende davvero rinunciare ai diamanti formatisi naturalmente.
Un altro report di Bain per il 2021-2022 nota poi che «il segmento ha registrato una continua crescita della domanda e una diminuzione dei prezzi rispetto ai diamanti naturali, grazie all'aumento dell'offerta di diamanti coltivati in laboratorio e all'avanzamento delle tecnologie; il prezzo medio al dettaglio dei diamanti coltivati in laboratorio è sceso al 30% e il prezzo medio all'ingrosso al 14% dei prezzi naturali, rispetto al 35% e al 20% del 2020». Uscendo dal mondo della gioielleria ed entrando in quello della moda vero e proprio, si può dire che non servano prove particolari sul successo dei materiali lab-grown e anche biodegradabili: se Bottega Veneta ha creato una hit anni fa con i suoi Puddle Boots biodegradabili al 100%, se Balenciaga ha mandato in passerella un cappotto di pelle in Ephea (altro nome per un tipo di cuoio mushroom-based), se Stella McCartney ha creato un'intera collezione con la label di Mylo e i finanziamenti raccolti da MycoWorks nel terzo round ammontano a 125 milioni di dollari, il mercato sembra essere decisamente pronto per l’arrivo dei nuovi materiali sostenibili, capaci non solo di rendere l’idea del consumismo più guilt-free ma anche di poter essere prodotti in massa, con meno conseguenze e soprattutto con un modello di produzione più efficiente sia sul piano del lavoro che su quello dei costi.
Tutto pare indicare verso una nuova direzione nella nostra percezione del lusso. Se un tempo l’enfasi della narrativa della moda pesava sulla rarità, la delicatezza e il prestigio dei materiali per poi andarsi a spostare verso la loro performance e la loro sostenibilità, l’idea di una serie di materiali di lusso prodotti in laboratorio fa pensare un futuro in cui non l’innovazione tecnica ma quella biotecnica sarà il vero marchio distintivo del lusso.