Perché ci piace la moda “distrutta”?
Quando l’usura è la texture della nostra individualità
30 Maggio 2022
Quando la sua release è stata annunciata, la prima reazione alle Paris Sneakers di Balenciaga è stata l’indignazione, seguita a ruota da una bufera social di accuse e polemiche. Poi, il designer georgiano ha ben pensato di deteriorare le Stan Smith sulla sua ultima passerella con adidas, suscitando la curiosità degli occhi più scaltri. Nel 2020 è stata la volta di Gucci, che con un paio di collant strappati da 140€ - istantaneamente sold out - ha suscitato un polverone mediatico di indignati famelici di spiegazioni, mentre Alessandro Michele osservava le sue calze, create nel nome della caducità della moda, sparpagliarsi tra le celeb più famose. Ma il primo a gettare le basi di questa controversa tendenza fashion è stato John Galliano, che con la Dior SS2000 ispirata ai clochard dei sobborghi parigini si è guadagnato una parodia nel film Zoolander, oltre ad una miriade di proteste da parte delle comunità di senzatetto di tutto il mondo. Ma il successo della moda “distrutta” va ben oltre al risentimento e al disappunto del pubblico generalista. Alla base dei principi del lusso, vi è l’inaccessibilità del prodotto: più è inarrivabile, più lo desideriamo, più ci attiviamo per ottenerlo.
Secondo la teoria del “trickle down”, formulata da Georg Simmel alla fine dell’Ottocento, l’alta moda delle classi sociali più alte “sgocciola” sulle classi minori, che cercano di imitarla. Con la nascita del prêt-à-porter il meccanismo si è invertito, gli stili non si generano più nell’alta società, bensì dalle classi sociali più basse: l’alta moda non deve far altro che reinterpretare, in chiave estetica, la voce del popolo. Demna non ha fatto altro che attenersi alla teoria del “bubble up”, come i più grandi brand di moda sono soliti fare da più di sessant’anni, ma nella sua astuta mossa di marketing ha fatto leva su una componente psicologica che raramente, di questi tempi, viene sollecitata. Le Paris Sneakers, così come i mohair fatti a brandelli di Yohji Yamamoto o i calzini sfilacciati di Maison Margiela, non sono solo un guilty pleasure di “ricchi che vogliono vestirsi da poveri”, come ha inveito il popolo dei social. Sarebbe troppo limitante pensare che più di 150 anni di storia della moda oggi si riassumano in una beffarda strategia mediatica, e sarebbe altrettanto riduttivo etichettare l’ultimo prodotto di Balenciaga come l’ennesima mera provocazione.
Se la moda distrutta ed imperfetta sta sostituendo il lusso patinato, il motivo è alle origini della nostra individualità. Quanti di noi, durante l’adolescenza, erano davvero spensierati? Basta porsi questa domanda per avanzare un passo verso la comprensione di quest’ultima, paradossale, svolta dell’ugly fashion. Non tutti si sentono liberi di esprimere chi sono davvero, ma quasi tutti vogliono mostrare di essere autentici e insostituibili, sfoggiando una serie di difetti che fanno da garante per la propria unicità. Il fascino della moda distrutta si fa spazio tra i nostri desideri come un feticcio e si ricollega alle nostre pulsioni ribelli ed anticonformiste. Ma ancora prima della moda, l’Art Brut (“arte grezza”) del 1945 collezionava opere d’arte di artisti emarginati, confinati in ospedali psichiatrici e prigioni, completamente impermeabili alle norme estetiche e collettive del tempo.
Creazioni spontanee e autodidatte, nate unicamente dall’impulso degli artisti “loro malgrado”, si sono erette al pari di opere d’arte canonicamente riconosciute, pur ignorando le norme della bellezza artistica tradizionale. La loro forza, che negli anni ha influenzato una moltitudine di correnti artistiche dalla Pop Art al graffitismo, sta nel saper trasformare qualcosa di brutto in un’opera d’arte inarrivabile, attraverso un grido primitivo di sofferenza e ribellione. Alla stessa maniera la moda deteriorata, strappata, e usurata, dà voce ad un lato trasgressivo della nostra personalità che comunichiamo attraverso lo stile: tramite un abito “distrutto” condividiamo con il mondo tutte quelle imperfezioni che siamo soliti nascondere, ma che rendono la nostra storia unica ed interessante. Parafrasando l’ultimo slogan di Balenciaga, un abito deteriorato dura in eterno, e ci piace proprio perché ha qualcosa da raccontare.