Esiste ancora lo stile personale?
Il feed degli influencer e le politiche dei grandi brand raccontano un presente omologato e ripetitivo
08 Aprile 2022
"La gonna di Miu Miu è così corta che sembra non avere fine. Nelle ultime due settimane è apparsa quasi quotidianamente: sulla copertina di riviste, indosso a celebrity e influencer, come soggetto di articoli sulla sua fama". Era lo scorso 10 marzo quando, sul New York Times, la giornalista Jessica Testa raccontava il suo incontro ravvicinato con quello che è indubbiamente il look di stagione, in occasione dell'ultima sfilata parigina di Miu Miu. Oltre ad aver scatenato accese polemiche sulla sua effettiva portabilità, il continuo ripetersi di quella micro minigonna e del crop top abbinato, indossati da decine di celeb e influencer con minime variazioni di styling, ha dato forma ad una schiera di personalità vestite tutte uguali, sintomo di un appiattimento estetico tale per cui viene da chiedersi se esista ancora lo stile personale.
È risaputo che le maison siano solite prestare dei look agli invitati delle loro sfilate, un metodo infallibile per dare risalto e visibilità a look selezionati, da valorizzare, da spingere come pezzi forti di stagione. Brand e designer vogliono avere un controllo diretto sulla propria immagine e sul proprio storytelling, un obiettivo che si è complicato non poco con i social, dove sono più vulnerabili a critiche e polemiche. Stabilire dei look predefiniti, sceglierne lo styling e chi li indosserà permette loro di ovviare almeno in parte a questa problematica.
Nonostante Testa racconti i diversi modi in cui le varie invitate alla sfilata di Miu Miu abbiano scelto di indossare *quel* look, basta dare un'occhiata alle foto di street style per capire che di varietà ce n'era poca. Come spiega @grrlbossbab su TikTok, "abbiamo raggiunto un tale livello di consumismo in cui anche gli abiti firmati, che dovrebbero essere un investimento, sono l'epitome dei micro trend. Vi garantisco che tra un anno nessuna di queste influencer indosserà ancora quel look". Scegliendo di mostrare un solo modo di indossare un determinato capo, i brand ne limitano l'appeal, intaccando la predisposizione di un pubblico interessato a fare un acquisto importante previa la sua versatilità, la possibilità di indossarlo in tanti modi diversi, insomma con la garanzia di aver fatto un investimento a lungo termine che darà i suoi frutti. Così invece anche il lusso diventa fast fashion.
Guardando la questione da un altro punto di vista, quello degli influencer, viene da chiedersi se i creator digitali, vestiti dalla testa ai piedi in un solo brand per prendere parte alla sua sfilata, abbiano ancora uno stile personale. Se il loro feed è un susseguirsi di gift, di seeding, di it bag da promuovere, dov'è il loro gusto, il loro filtro? Il loro ruolo di intermediari, di curator, tra le maison e il pubblico non esiste più. Se ogni influencer riceve lo stesso prodotto e lo mostra allo stesso modo, i loro post diventano l'ennesima campagna pubblicitaria da ignorare scrollando su Instagram.
L'onnipresenza del set di Miu Miu della SS22, esempio forse abusato a questo punto, ma che ha avuto già dei precedenti illustri - vedi alla voce Gucci SS11, o ai capi con stampa banane di Prada FW18 - è indicativa anche di un'altra prassi tipica delle grandi maison: la politica di full look. Come raccontava un articolo di BoF del 2017, sono molte le case di moda che in occasione di shooting e servizi editoriali richiedono ai magazine di utilizzare look per intero, spesso replicando esattamente l'outfit apparso in passerella (una pratica che con il passare del tempo ha interessato sempre più anche il red carpet). Si tratta di una policy molto frequente in particolare al momento di insediamento di una nuova direzione creativa, così da fare un taglio netto con il passato e trasmettere la nuova immagine del brand in modo chiaro ed inequivocabile. Nicolas Ghesquière fu uno dei primi ad introdurre questa politica prima da Balenciaga e poi da Louis Vuitton, seguito da Riccardo Tisci da Burberry, ma la policy è valida anche da Christian Dior e Celine.
Sembra che il più esigente fosse però Raf Simons, all'epoca alla guida di Calvin Klein. "La regola imponeva che tutti i capi della collezione di debutto di Simons (FW17) dovessero essere fotografati nel look di passerella, non abbinati a nessun altro brand (anche se si trattava di capi senza loghi o di abbigliameITnto vintage), o perfino ad altri capi della stessa collezione. Gli accessori non potevano essere indossati con nessun tipo di item: il brand procurava un body di nylon color carne per accompagnare un paio di stivali. In pratica, non c'era styling da fare su questi capi, dovevano essere fatti indossare alla modella come sulla passerella e nelle campagne pubblicitarie del brand."
E dato che molte di queste grandi maison sono anche gli inserzionisti più importanti per i magazine di moda, è chiaro che questi diktat verranno accolti ed eseguiti. "Questa scarpa è la ragione per cui facciamo questo servizio. Paga lo shooting", aveva raccontato in proposito la stylist Melanie Ward a BoF. Ecco, gli stylist. Di questo passo in che direzione andrà il loro lavoro? Si limiteranno ad intrattenere rapporti personali con i brand, così da farsi inviare i look più desiderati di stagione, ma senza avere nessuna voce in capitolo a livello creativo? "Non sei un bravo stylist se scegli solo full look - sei un vestiarista", aveva dichiarato a BoF Alexandra Carl, fashion director di Rika.
L'industria della moda è prima di tutto una macchina economica, e solo in un secondo momento può essere un sistema creativo, almeno per le condizioni che si sono andate a creare oggi, in particolare i rapporti di dipendenza tra magazine, maison, stylist e creator. È però innegabile che vedere sempre gli stessi look, immutati e immutabili, dalla passerella alle riviste alle celeb e agli influencer per i sei mesi successivi, provoca un appiattimento, una noia, un'omologazione che è antitetica alla natura stessa della moda, e delle riviste di moda. È paradossale che in un momento storico di iper connessione, in parte più libero, interessante e democratico, che ha permesso al fashion system di instaurare un rapporto diretto con un pubblico più ampio e variegato, proprio designer e brand siano così spaventati da questa esposizione mediatica da voler stabilire un controllo assoluto sulla propria immagine, con ogni mezzo possibile. A discapito di tante, inaspettate, possibilità.