Il rapporto tra cinema e moda secondo Luca Guadagnino
Da Raf Simons a JW Anderson
25 Aprile 2024
Luca Guadagnino è passato, negli ultimi anni, da piccolo regista indipendente a grande produttore di fenomeni culturali. Tutti i suoi film diventano, in misura diversa, dei cult e questo anche grazie a un approccio stilistico che integra profondamente narrazione e costumi. Se per decenni interi Guadagnino ha collaborato con più o meno indirettamente con il mondo della moda con la mediazione dei suoi costumisti il suo ultimo progetto, Challengers, che ha per protagonista Zendaya, ha una connessione con essa molto più diretta: il suo costumista è Jonathan Anderson in persona. Sempre Anderson, tra l’altro, dovrebbe curare i costumi del prossimo film del regista, Queer, che avrà per protagonista Daniel Craig. La combinazione di popolarità e influenza della triade Guadagnino-Zendaya-Anderson ha già portato i costumi del film a rappresentare un’estetica a sé stante, che noi abbiamo definito “tenniscore”, che tra l’altro Zendaya ha coltivato nei vari photocall del tour promozionale del film con look pensati per rievocare il mondo del tennis. Ma questa relazione tra regista e designer di moda non è affatto una novità per Guadagnino che già nel 2005 prestava il suo occhio registico a Silvia Venturini Fendi per il cortometraggio The First Sun con cui venne presentato la collezione SS06 di Fendi – collaborazione rinnovatasi nel 2019 con la creazione di una stampa da parte di Guadagnino utilizzata per la SS20 del brand. Sempre Guadagnino ha firmato una serie di videocampagne d’artista per Armani, Cartier e Salvatore Ferragamo negli anni anche se il suo contributo più significativo in questo senso è stato il mediometraggio The Staggering Girl firmato nel 2019 in collaborazione con Valentino e con un cast di star che includeva Julianne Moore, Kyle MacLachlan e Mia Goth.
Ma questa è solo la superficie della connessione profonda e a volte complessa che lega Guadagnino e il suo cinema alla moda. Di sicuro la sua prospettiva estetizzante, la sua romantica esplorazione dell’amore negli ambienti della colta upper class italiana compiuta con la Trilogia del Desiderio (che include Io Sono l’Amore, A Bigger Splash e l’iconico Chiamami col Tuo Nome) lo ha portato necessariamente a confrontarsi con i linguaggi estetici e sartoriali dell’alta borghesia. Questo rapporto inizia a farsi più denso e significativo proprio con Io Sono l’Amore, film del 2009, ambientato in una Milano aristocratica ed elegantissima, con la protagonista, Tilda Swinton, che indossa una serie di straordinarie ri-edizioni della collezione SS08 di Jil Sander commissionate dalla costumista Antonella Cannarozzi a Raf Simons, che ai tempi era il direttore creativo del brand. Insieme ai gioielli di Damiani (un tocco delizioso, dato che proprio Damiani, anche se tecnicamente piemontese, è un brand milanesissimo dato che possiede la sua boutique praticamente al centro di Via Montenapolone) e a pezzi dell’archivio di Fendi, Guadagnino e la costumista Cannarozzi espressero la classica estetica della “sciura” di Montenapolone (la famiglia immaginaria del film viveva a Villa Necchi!) ma in una visione così minimalista e brillante nei colori da astrarne la figura fuori dal tempo.
Raf Simons tornò a collaborare con Guadagnino nel 2015 per A Bigger Splash, sempre con protagonista Tilda Swinton ma questa volta ambientato nello spettacolare scenario delle isole siciliane. A quei tempi Simons era diventato il direttore creativo di Dior – che firmò dunque i costumi del film. L’operazione messa in moto dalla customista Giulia Piersanti (ex-knitwear designer per Fendi e Balenciaga, tra le altre cose) fu molto vicina alla sensibilità di Simons: nel film Swinton interpreta una rock star in vacanza a Pantelleria. C’è dunque una doppia rappresentazione: nella vita pubblica e sul palco il personaggio è chiaramente ispirato a David Bowie, amico personale dell’attrice ma anche icona di Simons, mentre nella sua vita privata i suoi costumi sono ispirati ai codici borghesi degli anni ’50. Proprio questi outfit sono in sé stessi una citazione a Viaggio in Italia di Rossellini che ha per protagonista Ingmar Bergman. «Ogni volta che qualcuno pensa che la moda sia qualcosa di superficiale io, rispettosamente, dissento», ha detto il regista ad Another Magazine. Qui più che nel film precedente i costumi possiedono un vibe Simons-iano: occhiali futuristici, camicie oversize, abiti di cotone drappeggiati e annodati ma anche gonne a tulipano e caftani multi-pattern. Sempre in questo film, il personaggio di Swinton, che è temporaneamente muto, può parlare solo attraverso i suoi gesti e i suoi abiti – ed è per questo che, a differenza di Io Sono l’Amore, i costumi del film risuonano in una maniera del tutto diversa.
Sempre Piersanti collaborò con Guadagnino ai suoi film successivi, incluso Bones and All che rispolverò un certo guardaroba pre-grunge (il film era ambientato alla fine degli anni ’80 e dunque prima della nascita del grunge) fatto di jeans strappati, Converse e vecchi abiti consumati dal tempo e alla miniserie We Are Who We Are. In Chiamami col tuo nome il legame con la moda è molto più sottile: impegnandosi a ricostruire fedelmente il vestiario anni ’80 in Italia, Piersanti si ispirò ai vecchi album di foto dell’epoca e alle foto di Charles H. Traub e facendo, ad esempio, indossare al personaggio di Thimothèe Chalamet una enorme quantità di polo Lacoste, popolarissime in Italia all’epoca; ma per il personaggio di Armie Hammer, che era americano, proveniva dal blueprint delle guide allo stile di Charles Hix le cui foto erano scattate da Bruce Weber. Diverse furono le cose per We Are Who We Are dove la moda ha un ruolo molto importante perché vuole ritrarre fedelmente il gusto estetico delle nuove generazioni. La mini-serie esplora la cultura giovanile contemporanea e specialmente le issues della sessualità e del gender, ed è stata per il menswear quello che, sul piano della moda, Euphoria è stato per il womanswear. Per raccontare questo tipo di varietà, Piersanti si affidò nuovamente a Raf Simons che offrì alcuni pezzi del suo archivio, ma introdusse nel vocabolario dello stile del protagonista Jack Dylan Grazer capi di brand giapponesi come Comme des Garçons, Yohji Yamamoto, Human Made e Kapital ma anche pezzi di Celine, Rick Owens, Vetements e Saint Laurent oltre che a streetwear brand come Noah, Aries, Stussy, Cactus Plant Flea Market.
Il rapporto con la moda si inverte con Suspiria. I costumi del film, ambientato nella Berlino della Guerra Fredda, sono stati creati da Piersanti ispirandosi ai servizi di Sibylle, magazine di moda sovietico che la costumista stessa definì come «il Vogue socialista», ma anche alle opere di Christo per i costumi della scena di danza, ai drappeggi di Madame Grès e includevano, per le scene finali, persino abiti fatti con capelli umani. Ma questa volta fu il film a ispirare la moda e nello specifico Jun Takahashi che per la collezione FW19 di Undercover, presentata attraverso un lookbook, serigrafò alcune immagini del film su molti degli item della collezione che culminò con un cappotto che riproduceva l’intera figura di Tilda Swinton nel suo enorme abito rosso. La cosa fu insieme interessante e insolita dato che Takahashi, abituato a riempire le sue collezioni di reference cinematografiche, non utilizzò un film del passato (normalmente le sue citazioni sono dedicate ai film di Kubrick, Akira Kurosawa e di recente persino Nosferatu) ma del presente, uscito soltanto l’anno prima. Per i fan di Undercover, l’apparizione di Suspiria nella collezione potrebbe equivalere a un giudizio di Takahashi sul film – come a dire che, al pari degli altri da lui citato, Suspiria fosse già un classico. Sicuramente l’estetica generale del film, pur essendo del tutto dissociata dal lavoro di Takahashi, si avvicinò molto al suo gusto estetico: il distressing, l’ingenuità dell’abbigliamento vintage, la violenta carica eversiva della stregoneria simboleggiata dai lampi di rosso visti tanto sullo schermo che nel lookbook.
Con Challengers, l’approccio ai costumi è stato diverso: il grado di realismo del film, la contemporaneità della sua storia e anche le dinamiche sociali in esso rappresentate sono molto più attinenti sia all’esperienza quotidiana del pubblico che a quella che il pubblico vede delle celebrity. In un frangente storico in cui gli atleti sono le nuove celebrità e i nuovi ambassador di elezione di tanti brand di lusso, il film racconta assai bene, specialmente attraverso la parabola stilistica e umana del personaggio di Zendaya, il passaggio da un guardaroba normcore-adolescenziale al power dressing di una celebrity riflettendo anche la personalità e la provenienza sociale degli altri personaggi attraverso una lente realistica che descrive, ad esempio, anche la moderna tendenza alla sponsorship e alla promozione personale. Ma altre e più grandi cose sono previste dalla seconda collaborazione che Guadagnino ha firmato con Anderson (dovuta anche ai più alti budget che il regista è in grado di raccogliere) e che riguarderà Queer, film che entrambi hanno definito come uno dei progetti più importanti delle rispettive carriere.