Cos’è il kidcore?
Come la moda vuole tornare all’infanzia
26 Gennaio 2022
«Vestiti come un adulto» è una frase che, in forme e impostazioni diverse, tutti abbiamo sentito almeno una volta nella vita. E nella cultura italiana c’è sempre stata una precisa definizione di cosa significasse vestirsi “da grande” e cosa invece fosse vestirsi “da ragazzino”. Gli adulti indossano la camicia (bianca o azzurra) sotto il pullover, pantaloni né troppo stretti né troppo larghi, scarpe preferibilmente di pelle ma, soprattutto, colori scuri, con poche concessioni fatte agli accessori. È un abbigliamento da ufficio, se vogliamo, una divisa che testimonia il grado di serietà personale di ciascuno dentro la vita di società. Eppure, due anni fa, la società è stata stravolta dal lockdown e nel generale movimento culturale che ha portato individui e società a rivalutare i propri modelli di vita, l’esigenza di “vestirsi da grande” ha cominciato a venir meno. Self-expression, liberazione del gender, fine della vita d’ufficio, nostalgia degli anni d’infanzia, ricerca della semplicità – tutte possibili motivazioni dietro la trazione che, negli ultimi mesi, ha guadagnato l’estetica kidcore che, per citare Lyst, punta tutto su «colori vivaci, accessori ispirati ai giocattoli e stampe contrastanti». Un tipo di stile che potrebbe avere la sua icona in personaggi televisivi come Jules in Euphoria o la Harley Quinn di Margot Robbie ma che in realtà possiede numerose declinazioni.
Le scarpe Mary Jane da uomo viste sulle passerelle di JW Anderson, Fendi e Comme des Garçons Homme Plus quest’anno, per esempio, sono fortemente associate all’infanzia; lo show milanese di Anderson, con tutti i colori, gli accessori-giocattolo, le calze a righe e gli abiti che sembrano soffici e variopinti come caramelle è stato pure, a suo modo, un’interpretazione del trend – trend esplorato, nei suoi lati visuali, anche da brand come Blumarine, Undercover, Marni ma anche Gucci nel gennaio 2020. Come si diceva le possibili variazioni sono molte: se lo show FW20 di Gucci evocava l'infanzia ma rinunciando al massimalismo di stampe e colori, Jun Takahashi trasformava i mecha di Neon Genesis Evangelion in giacche e maglioni mentre Marni utilizzava la naïveté della contrapposizione tra strisce e margherite per veicolare un messaggio più complesso.
Altri esempi recenti: i gioielli di Homer disegnati da Frank Ocean sono ispirati alle sue «ossessioni d’infanzia» mentre quelli di Bottega Veneta fatti con le perline di resina o a forma di cavo telefonico hanno ricordato i gioielli fai-da-te comuni tra i bambini di tutto il mondo; parlando dei long johns di Prada presentati l’anno scorso Raf Simons ha detto di essersi ispirato tanto alla biancheria dei cowboy che alle tutine dei neonati; nel suo show SS22 Marco Rambaldi ha incluso simboli kidcore come farfalle, stampe multicolori, disegni di cuori, mesh tops e fermacapelli trasformandoli in statement politico; Oliver Rousteing ha appena fatto collaborare Balmain e Barbie producendo una versione della celebre bambola vestita con i suoi abiti mentre nel suo lavoro da Louis Vuitton, Virgil Abloh è andato sempre raffinando il concetto di boyhood ideology ossia l’idea di adottare lo sguardo senza preconcetti del bambino. Invece, profeticamente, nel 2015, Kanye West diceva a Jon Caramanica: «Voglio vestirmi il più possibile come un bambino».
L’origine di questo stile, comunque, non è TikTok ma il Giappone: sarebbe impossibile non vedere un parallelismo o comunque una parentela tra il kidcore di oggi e il concetto di kawaii sviluppatasi in Giappone negli anni ’70 e poi esplosa insieme alla popolarità dello stile Harajuku negli anni ’80 e ’90 e del lolita fashion documentati dal leggendario FRUiTS magazine di Shoichi Aoki. Se però nel caso del lolita fashion la qualità della cuteness era una parte della cultura giapponese dell’epoca, e risentiva di influssi storici, linguistici e culturali, il kidcore che oggi si è diffuso anche in occidente ha una forte componente nostalgica. Non di meno, le motivazioni culturali dietro le due estetiche si assomigliano: reagire alle imposizioni sociali e all’aderenza a ruoli di genere troppo definiti, rigettare le aspettative sociali connesse a questi ruoli, ridefinire la propria identità in contrapposizione a una serie di valori in cui non ci si riconosce ma anche guadagnare self-confidence e affermare la propria capacità di espressione. Questa ascendenza culturale è importante in quanto fu proprio con la lolita fashion che il deliberato infantilismo nella moda assunse un connotato politico.
Ciò che è più importante notare, comunque, è che il kidcore che si vede su TikTok, ad esempio nei video in cui la stessa persona cambia il suo look in base a tre o quattro stili diversi, è una versione estremamente “pura” e un po’ fittizia di se stesso e che, all’interno di una collezione di moda ad esempio, finisce sempre per diluirsi e attenuarsi ma rimane comunque riconoscibile sotto forma di una sorta di naïveté, di semplificazione apparente di forme, volumi o grafiche, di stilizzazione estrema o, al contrario, da un’esagerazione di colori e texture che replica la vivacità e il gioco dell’infanzia. Alla base, ci sono sempre i valori di semplicità e franchezza – l’ennesima ricerca di autenticità e realtà di un’industria e di una cultura che hanno esplorato tutto l’esplorabile.