5 domande (e risposte) per chi sogna di lavorare nella moda
Dalle scuole specializzate alle prospettive lavorative
26 Gennaio 2022
Nelle scuole di moda italiane ogni anno si registrano centinaia di migliaia di iscrizioni, per un totale in costante aumento di nuovi aspiranti designer, editor o merchandiser sparsi in tutto il mondo. Nonostante si tratti di un ambito di cui all’esterno si conosce ancora troppo poco, quello della fashion industry è uno dei settori professionali più ambiti. Ma molti non sanno che spesso intraprendere un percorso in questo settore equivale più o meno ad un salto nel vuoto, specialmente per chi non ha avuto modo di avvicinarsi ai meccanismi interni del mondo della moda prima e si ritrova a scegliere un percorso di studi senza i mezzi per farlo. Oltre ad essere un ambito in costante evoluzione, la moda non è regolata da percorsi lavorativi ordinari e pre-definiti ed è per questo che, per chi sogna un futuro nel fashion industry, ottenere un quadro generale chiaro e conciso appare sempre più difficile. Pensando ai dubbi che incorniciano la scelta del proprio percorso lavorativo, gli studi specializzati agli sbocchi professionali, abbiamo preparato un ipotetico Q&A dedicato ai quesiti più frequenti.
Per lavorare nella moda serve una laurea?
No, o per lo meno non ancora, considerando l’up-grade in corso che vede protagoniste le scuole di moda e l’importanza di specializzarsi per ritagliarsi uno spazio nella scena contemporanea. Gran parte degli addetti proviene da background professionali molto lontani e in alcuni casi non hanno nemmeno un trascorso accademico-universitario. In Italia, dove i percorsi di studi riconosciuti dal MIUR costituiscono solo una minima parte del totale, è raro che un marchio richieda nello specifico un classico titolo di studio. Il discorso è valido anche per i percorsi specializzati: come scrive Laura Bachman su 1Granary, aver frequentato una scuola di moda può rappresentare un vantaggio, ma non è uno step necessario. Piuttosto che il percorso accademico, a venire valutato ai vertici è un approccio fresco al lavoro che sia in grado di apportare al settore un punto di vista inedito – che può essere favorito proprio da un bagaglio culturale diametralmente opposto.
Per studiare moda serve avere una grande disponibilità economica?
Vorremmo potervi dire di no, ma si sa, le rette delle scuole di moda costano un occhio della testa e non è facile sopravvivere senza potersi permettere ulteriori spese – stampare una brochure creativa ha un costo decisamente maggiore dei 5 cent per pagina di una sbobina di economia, per non parlare delle sarte da pagare e delle spese che comporta orchestrare un editoriale. La motivazione? Le accademie italiane sono principalmente private perché la moda non ha ancora raggiunto una sufficiente legittimazione come disciplina accademico- scientifica e le cifre da pagare per frequentare le più prestigiose sono comprese tra i 10mila e i 20mila euro – e le borse di studio sono generalmente a copertura parziale. Sono solo tre le possibilità di studiare moda presso delle università pubbliche: l’ampia offerta formativa dello IUAV, la facoltà di Cultura e pratiche della moda dell’Università di Bologna e il corso di Design della moda del Politecnico di Milano. Se sognate di studiare a Londra, che vede nella Central Saint Martin e nel London College of Fashion alcune delle mete più prestigiose su scala globale, le fee sono sempre state elevate e, come spiega Federica Salto su iO Donna, ora le tasse sono destinate ad aumentare a causa della Brexit.
Le scuole di moda preparano sufficientemente alla vita lavorativa?
Se c’è una cosa indiscutibile, è che frequentare una scuola di moda richiede di essere open-minded a 360 gradi e di sopravvivere a delle tempistiche strettissime passando ore e ore davanti al computer nei giorni (e nelle notti) che precedono un esame. Tale metodo di studio, con poca teoria e molta più pratica, costituisce un’ottima palestra per chi si affaccia al mondo del lavoro, ma non solo: un altro grande potere delle scuole di moda risiede nel permettere a chi le frequenta – e le vive, tra lifestyle e vocazione, di apprendere le dinamiche che regolano il sistema e che sono generalmente sconosciute a chi, come spesso accade, proviene da un piccolo paese situato in mezzo al niente. Questo non significa che una volta usciti da un intensive, un master o un corso undergraduate saprete fare tutto, ma non c’è dubbio sul fatto che avrete sviluppato il mindset adatto per affrontare ogni lavoro.
In che modo le scuole di moda favoriscono l’inserimento nel mondo del lavoro?
Anche se è molto probabile che appena usciti dal vostro primo open day vi immaginiate già alla guida di Gucci (a proposito di illusioni e fashion education c’è un sempre valido articolo di BOF del 2017), è importante restare con i piedi per terra. Prima di pagare quelle profumatissime rette, dovete sapere che così facendo non vi assicurerete un’assunzione per quando il vostro percorso di studi sarà giunto al termine. Attraverso l’istituzione dei «career service», le scuole di moda mettono a disposizione un team di professionisti specializzati nell’ambito delle risorse umane pronti a supportare ciascuno studente durante il percorso di orientamento, che comprende la stesura del cv, la revisione schematica di una cover letter e la preparazione di un’eventuale presentazione orale. A questo si aggiungono portali per cercare lavoro costumizzati e, in modo ufficioso, i contatti dei professori (professionisti del settore) con il mondo esterno. Ma nessuno potrà fare un colloquio al posto vostro. E che, in fin dei conti, sarà comunque come vedervela da soli.
Per lavorare nella moda bisogna avere un background creativo?
No. Come dicevamo per il titolo di studio, anche avere un bagaglio culturale o professionale diverso può essere la chiave per il successo. Aree di interesse diametralmente opposte alla moda come la scienza e la giurisprudenza sono fortemente richieste dalle aziende. La motivazione è da ricercare nell’urgenza di rispondere alla tendenza sostenibile e ridurre l’inquinamento ambientale, nella necessità di fronteggiare le sempre più frequenti accuse di contraffazione e concorrenza sleale, e in molte altre dinamiche che, per realizzare delle soluzioni creative, hanno bisogno di menti che non lo sono. E se Virgil Abloh – un ingegnere che si è trasformato in designer visionario fino a diventare il direttore creativo di uno dei brand di lusso più famosi al mondo, è un esempio perfetto, il discorso è valido per i membri di Pangaia e di tutti gli altri progetti start-up e sustain-tech fondati da matematici, scienziati e ricercatori che non provengono dall’interno del fashion industry e che, come anticipato da un articolo pubblicato su Forbes nel 2019, stanno ridefinendo il significato di brand sostenibile come nessun altro avrebbe potuto fare.