Ha ancora senso fare fashion week separate per l'uomo e per la donna?
Dimezza le fashion week, dimezza gli sprechi
19 Gennaio 2022
Sei anni fa nell'industria della moda è apparso un micro-movimento che ha visto un aumento delle sfilate Co-Ed, che mostravano insieme le collezioni maschili e femminili. Gli annunci iniziarono con Burberry e poi proseguirono con Tom Ford, Vetements e Gucci, il tutto in un anno. Negli anni successivi, diversi altri marchi si sono uniti alla lista delle sfilate co-ed tra cui Balenciaga, Bottega Veneta, Versace, Givenchy tra gli altri. Fast forward al 2022, e molti di questi marchi sfilano o fuori dal calendario o a febbraio e settembre, cioè durante le fashion week femminili. Nonostante questo, l'industria insiste ancora nel separare le due fashion week maschile e femminile, anche se ci sono marchi che per esempio, durante le fashion week maschili, fanno sfilare anche il womanswear. Se a questa situazione si aggiungono i cambiamenti avvenuti dentro e fuori l'industria della moda, dalla pandemia fino alla preoccupazione per la sostenibilità, sorge la domanda: è ancora necessario mostrare l'abbigliamento maschile e femminile separatamente? O l'industria si sta semplicemente aggrappando a un inutile pezzo di tradizione?
Siamo appena entrati nel primo fashion month dell'anno, con la Milan Fashion Week che si è chiusa dopo un’edizione breve di quattro giorni e la Paris Fashion Week che è appena iniziata - ma le cose sono un po' diverse quest’anno. A causa della persistente preoccupazione della pandemia, la New York Fashion Week è stata cancellata, così come quella di Londra; il calendario di Milano si è svuotato con molti brand che hanno mostrato in forma digitale o solo in showroom, mentre Parigi è l'unica città che ha optato per andare a pieno regime con la maggior parte delle proprie sfilate in presenza. L'aspettativa generale è che le cose filino più lisce il mese prossimo con la fashion week femminile. È chiaro che questa non è la prima volta che le case di moda affrontano tali sfide. Negli ultimi anni, con l'incertezza che ha caratterizzato la vita sociale di tutto il mondo, l'industria ha suonato a orecchio con i propri show, altalenando tra progetti digitali e show fisici – rimane comunque evidente che, nella maggior parte dei casi, un calendario soffra più dell'altro, e che di solito questo calendario sia quello del menswear.
Il dibattito sull’unire i due calendari e adottare un più sintetico format co-ed dura da ben prima della pandemia. Non è un segreto che per le rispettive città questi eventi non sono solo utili per promuovere il turismo, ma sono anche grandi fonti di introiti finanziari. In un'analisi del 2012 della New York City Economic Development Corporation, le sole stagioni di abbigliamento femminile hanno avuto un impatto economico totale di 887 milioni di dollari sull’economia cittadina. Le settimane della moda e le fiere di Parigi hanno totalizzato un fatturato complessivo di 1,2 miliardi di euro e a Milano l'impatto economico annuo arriva fino a 160 milioni di euro, quindi ovviamente in una situazione normale si potrebbe sostenere che tagliare la metà degli eventi di ogni città potrebbe comportare perdite economiche. Tuttavia, la realtà innegabile è che non siamo più in una situazione normale e dall'inizio della pandemia questi introiti stagionali si sono comunque ridotti all’osso - il che rende può come minimo portarci a riflettere su quali potrebbero essere le prossime mosse per l’industria.
Mettendo per un attimo di lato la questione della pandemia, va anche considerato che sia l’industria della moda che la società sia entrata in una nuova era per quanto riguarda la percezione del gender. Il New York Times ha descritto la scorsa stagione SS22 con il titolo di The End of Gender, a causa della grande quantità di designer che hanno fatto sfilare collezioni co-ed o semplicemente genderless. La questione non riguarda tanto l'appartenenza di questo o quel capo a un genere specifico, ma la rimozione alla radice del sistema di divisione. La critica Vanessa Friedman ha spiegato:
«Credo che ci troviamo davanti a un cambiamento sistemico interessante e potenzialmente significativo, che corrisponde a cambiamenti culturali e sociali, specialmente tra le giovani generazioni. Da Raf Simons: tailleur femminile su modelli e modelle. Da Valentino: taffetà lavata in cioccolato, viola e verde brillante su modelli e modelle. Da Marni, abbiamo visto maglioni giganti con grandi fiori su uomini e donne. Alla fine della stagione, era diventato così comune, che a malapena lo notavo. Vedevo solo vestiti».
È chiaro che l’idea di una serie di settimane della moda co-ed è anche in linea con il proposito di creare un'industria più sostenibile – oltre a essere una realtà già di fatto per quanto riguarda molti grandi brand italiani. Secondo un rapporto di Zero to Market, circa 241.000 tonnellate di anidride carbonica (che corrispondono a un’energia sufficiente per alimentare Times Square per 58 anni) vengono emesse durante le quattro fashion week di Milano, Londra, Parigi e New York. Combinare le stagioni womenswear e menswear significherebbe dimezzare questo numero, e seppur ancora eccessivo, sarebbe sicuramente un primo passo verso un’industria con meno sprechi e cambiamenti più significativi.
Essendo questa un'opzione più intelligente e fattibile per riavviare il meccanismo delle fashion week post-pandemiche, ed essendo anche ciò che molti brand stanno già facendo, e trattandosi di un'opzione sostenibile per l'ambiente, tutto sembra puntare verso l’istituzione di fashion week co-ed, e sebbene sia un pezzo di tradizione a cui molti si aggrappano ancora, è impossibile ignorare che è qui che si dirige il futuro. Mentre sempre più marchi continuano ad abbandonare il calendario maschile per mostrare collezioni co-ed durante la stagione dell'abbigliamento femminile, la stagione dell'abbigliamento maschile diventerà presto un mito, quindi perché non porre fine alla sua esistenza in modo pacifico e responsabile invece di trascinarlo in un’insensata lotta per la sopravvivenza?