Perché serve modernizzare la figura del direttore creativo
Nel 2022 alla moda servono soprattutto orizzontalità e trasparenza
07 Gennaio 2022
A distanza di qualche tempo dall’allontanamento di Daniel Lee da Bottega Veneta, voluto o non voluto, meditato o capitato all’improvviso, possiamo prenderci un po’ di tempo per riflettere perché il senso del tragico nel mondo della moda si è espresso così spesso attraverso la figura del direttore creativo e perché alla narrativa che circonda il settore farebbe bene un maggiore equilibrio. Abbiamo tutti imparato da House of Gucci come Tom Ford, prima persona in assoluto ad incarnare questo ruolo, sia arrivato in un momento a dir poco disastroso per il brand e ne abbia decretato la rinascita ma molti ricordano anche un John Galliano, allora a capo di Dior, che, visibilmente ubriaco, grida insulti antisemiti ad alcuni avventori del suo bar preferito per poi essere scacciato seduta stante e spedito da Anna Wintour in una clinica di riabilitazione. Il senso del tragico (non quello di Nietzsche ma quello di Verissimo) si manifesta attraverso figure così potenti da un punto di vista della comunicazione che la recente morte di Virgil Abloh ha gettato masse di accoliti nello sconforto, lasciandoli apparentemente senza un punto di riferimento, privandole di una figura che era ed è ancora un’icona nel proprio ambito. Questo perché il racconto dei marchi oggi viaggia intorno e attraverso il loro capo supremo, il cuore, la mente e l’anima: l’inscalfibile direttore creativo.
Creare una piramide di potere che forma un angolo acutissimo però vuol dire ignorare del tutto il modernissimo concetto di orizzontalità, concentrare tutta la pressione su un’unica persona e di conseguenza, molto probabilmente, creare un ambiente malsano. Ray Dalio, fondatore di Bridgewater Associates, il più grande hedge fund del mondo con una fortuna personale di 18,7 miliardi di dollari, nel suo libro I Principi del Successo racconta di come la sua ricchezza sia dovuta ad una cultura aziendale basata sulla trasparenza radicale, in cui ognuno può esprimere un’idea e questa idea può diventare realtà se accolta attraverso processi decisionali aperti e coinvolgenti. Non esattamente quello che ci viene in mente quando pensiamo a Miranda Priestly de Il Diavolo veste Prada, benchmark negativo assoluto ma in realtà punto di riferimento costante per molti creativi a capo di marchi più o meno famosi.
L’orizzontalità non è mai stata un concetto particolarmente di moda nella moda ma proprio l’arrivo di outsider come Virgil Abloh pareva aver introdotto, anche sotto forma di critica al sistema, una nuova via, un’idea di condivisione molto meno accentratrice. Abloh ha più volte dichiarato non solo quale fosse il suo approccio progettuale ma anche in che modo lo mettesse in pratica: attraverso un continuo dialogo con un team di lavoro che godeva in ogni momento del privilegio della parola e che non doveva mai abbassare gli occhi al suo passaggio- un team di lavoro inclusivo e multiculturale. La questione pare essere quindi che un direttore creativo non dovrebbe solo incarnare la visione del brand di cui si occupa ma dovrebbe anche essere completamente permeabile alle istanze sociali che lo circondano diventando, a tutti gli effetti, un filtro tra il dentro e il fuori in una prospettiva che forse non è neanche orizzontale ma multidimensionale e che trasforma questa figura in un gigantesco magnete attaccato ad una struttura che si fa carico di trovare una sintesi tra il mondo com’è e il mondo come dovrebbe essere.
Abloh ha decisamente lasciato il percorso incompiuto. Per uno strano caso del destino un amico mi hanno appena fatto notare quanto nell’uscita finale della sfilata Vuitton di Miami dell’intero gruppo di lavoro di Virgil solo due fossero afroamericani. Questo non è solo il segno evidente dell’interruzione di un processo di ricostruzione ma anche una fortissima metafora di come l’intero mondo della moda stia attraversando un cambiamento epocale e si trovi in mezzo al guado, con spinte nelle direzioni opposte di cui ancora non si capisce l’esito. Se il processo venisse mai portato a compimento, cioè se il direttore creativo fosse allo stesso tempo chi indica la rotta e chi osserva i rovesci del tempo, chi guarda dentro e chi guarda fuori, si porrebbe, alla fine, un problema forse irrisolvibile ma con cui prima o poi la moda dovrà avere a che fare.
Si possono costruire squadre di lavoro non elitiste e orizzontali e si può trovare un solido collegamento con il mondo reale attraverso un approccio etico ma arriverà un momento in cui si dovrà rispondere alla domanda sul perché una sneaker costa 800 euro e una felpa di cotone 600. Ad oggi nessuno è riuscito a rispondere a questa domanda, neanche Virgil Abloh. Eppure alla fine di questo totale stravolgimento in atto non può esserci altro che il rifiuto di queste disperate e senza senso dinamiche di crescita e di conseguenza un lavoro profondo non solo sull’orizzontalità e l’inclusione ma sul delicato punto di equilibrio tra etica e guadagno.