Cosa significa per l’editoria di moda lo scontro tra Celine e Vogue
Quando un brand snobba il fashion magazine più famoso del mondo
16 Dicembre 2021
Ieri pomeriggio, un articolo di WWD ha rivelato un inatteso nuovo beef nell’Olimpo della moda: Hedi Slimane vs. Vogue. A quanto pare, Hedi Slimane non avrebbe invitato Vogue a coprire il suo show SS22 di Celine dopo che Emmanuelle Alt, editor-in-chief di Vogue Paris, ha lasciato la direzione del magazine che ora è stato rinominato Vogue France. La vicenda ha rapidamente preso dimensioni drammatiche quando si è venuto a sapere che Slimane ha portato le sue rimostranze alla scrivania di Anna Wintour in persona – incontro che avrebbe portato a un embargo totale nei confronti di Vogue. Più tardi, Mario Abad, fashion editor di PAPER magazine, ha pubblicato una conversazione avuta in DM con una fonte anonima presumibilmente interna a Vogue che ha detto «posso confermare che Condè Nast è bloccata da tutto ciò che è Celine […]. Il nostro fashion director […] ci ha detto che l’embargo è così severo che Condé Nast non ha più il permesso di menzionare Celine o il nome di Hedi Slimane – anche se non so se questo succederà o meno. Tutto il resto però è vero. Ha completamente perso le staffe. Nessun invito agli show, nessun sample – niente». La vicenda si va a inserire nel largo filone delle faide tra Hedi Slimane e le personalità della moda: faide che lo hanno portato a litigare con Kanye West, a portare Kering in tribunale, a escludere la giornalista Cathy Horn dalle sfilate per una cattiva recensione e a cancellare oltre 100.000 euro di ordini da Colette per una t-shirt satirica nel 2013. Scontrarsi direttamente con Vogue, però, ha una valenza simbolica molto più importante: se Celine può fare a meno di Vogue e Condé Nast, è la rilevanza del magazine a essere messa in discussione.
È esistito un periodo, prima di Instagram e dei social, in cui Vogue controllava, con le sue varie edizioni, tutta la narrativa della moda – basti pensare a cosa riuscì a fare Franca Sozzani per il Made in Italy dalle pagine della sua rivista. Al punto che il magazine, nel suo complesso, rappresentava un centro di gravità per l’industria del lusso: i brand erano dipendenti dal magazine per la diffusione delle proprie campagne, per le interviste, per mettere in mostra le proprie creazioni negli editoriali firmati dai migliori fotografi del mondo con lo styling di leggende come Grace Coddington o Carine Roitfeld. Tutto un sistema che aveva un grande limite nella sua chiusura al mondo e al talento esterno, oltre che alle nuove generazioni, e che è finito sotto accusa per mancanza di diversity – ma che soprattutto ha perso la rilevanza che aveva un tempo per quanto riguarda quel nesso tra peso culturale e importanza commerciale con il sorgere dei nuovi media. Oggi, se Celine pubblica la propria campagna o i look del proprio show, sarà il pubblico di Instagram e di TikTok a diffonderli ovunque, a recensirli, ripostarli, parlarne. E se anche i social media non avessero il potere che hanno, ci sarebbe comunque uno stuolo di magazine indipendenti che nel corso degli anni hanno guadagnato la stima dell’industria e che possono occuparsi del coverage della collezione tanto bene quanto Vogue.
Al cambio delle dinamiche di potere nell’ambito della fashion communication & PR, si va anche ad aggiungere il controverso processo di centralizzazione del potere attuato da Condé Nast nell’ambito dell’universo Vogue – processo che è stato definito di “semplificazione” dall’editore, e che ha visto le varie edizioni nazionali del magazine perdere autonomia nei confronti di redazioni più centralizzate e controllate dall’alto dalla Wintour stessa, che è Chief Content Officer di tutti i magazine di Condé Nast, e di Edward Enninful, che da editor-in-chief di British Vogue è diventato European Editorial Director. La mossa non è stata molto amata, sia perché ha portato a una diaspora di creativi e talenti che da anni lavoravano da Vogue, sia perché ha portato a una perdita di specificità delle singole edizioni nazionali, tutte dotate di un’estetica e uno storytelling molto diversi tra loro. Una mossa che sostanzialmente ha concentrato il potere editoriale dei magazine nelle mani dei dirigenti di Condè Nast a discapito delle singole realtà nazionali e dei giornalisti che lavoravano al loro interno ma che ha anche tolto incisività e importanza alla rivista del cui supporto, a quanto pare, un brand come Celine, e chissà quale altro, può fare tranquillamente a meno.