Vedi tutti

Patagonia non usa la parola “sostenibilità”

"Perché? Perché riconosciamo di essere parte del problema"

Patagonia non usa la parola “sostenibilità” Perché? Perché riconosciamo di essere parte del problema

In questi giorni si sta tenendo a Glasgow il COP 26, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi climatica. Gli attivisti di tutto il mondo, e specialmente quelli dei Fridays for Future di Greta Thunberg hanno definito la conferenza un evento soltanto politico, in cui si discute di problemi senza risolverli davvero – una preoccupazione che anche Patagonia, uno dei brand di outerwear più eco-conscious sul mercato, ha condiviso in una lettera aperta firmata da Beth Thoren, environmental action & initiatives director del brand per l’area EMEA. Lo scopo principale della lettera è semplice, ed è quello di chiedere ai leader politici di «stabilire standard globali per il monitoraggio e la riduzione delle emissioni di carbonio» e ai brand quella di «dare un taglio alle chiacchere vuote». Riferendosi poi al problema dell’inquinamento della moda, che è «fuori di testa, con una mancanza di chiarezza che alimenta il greenwashing e blocca le azioni concrete», Thoren spiega anche:

«Da Patagonia non usiamo mai la parola “sostenibile”. Perché? Perché riconosciamo di essere parte del problema. In passato, abbiamo stabilito l’obiettivo di ridurre a zero le emissioni entro il 2025. Ma compensare le emissioni a pagamento non cancella il nostro impatto ambientale e non ci salverà nel lungo periodo. Prima di tutto dobbiamo ridurre il peso del nostro business tagliando drasticamente le emissioni in tutta la nostra filiera. Ciò che ci disturba maggiormente, però, è che al momento non sappiamo come fare».

Parole tanto oneste quanto dure – che ricordano molto lo statement We are not a sustainable brand pubblicato da Noah nel 2019 per lo stesso motivo, cioè denunciare il greenwashing diffuso un po’ ovunque nell’industria della moda. Il caso più recente ed eclatante esploso grazie a TikTok ha riguardato ad esempio Coach, i cui dipendenti avevano ricevuto l’ordine di danneggiare borse invendute ritrovate poi nella spazzatura per ottenere, secondo Anna Sacks, esenzioni fiscali – scandalo che ha portato il brand a postare scuse ufficiali sulla sua pagina Instagram. Dall’altro lato dello spettro, invece, c’è Chloé, brand che ha combattuto il greenwashing sottoponendosi alla procedura di certificazione B Corp, molto severa e soprattutto costosa, ma che elimina ogni ombra di dubbio sul greenwashing attraverso l’accountability. La certificazione B Corp infatti è considerata affidabile perché si affida a numerosi standard del tutto quantificabili – non a caso nella lettera aperta di Patagonia il movimento B Corp viene menzionato come una delle due soluzioni al greenwashing insieme agli appelli diretti e pubblici alla politica.

In generale, leggendo fra le righe nella lettera di Patagonia, i molti riferimenti alle dichiarazioni prive di seguito di molti brand e alla completa sregolatezza che circonda il tema delle emissioni sembrerebbe additare la colpa dell’inquinamento causato dalla moda nella sovrapproduzione. Thoren scrive: «Il 95% delle nostre emissioni viene dalla nostra filiera – e la nostra è una realtà piccola. Produciamo in fabbriche condivise, spesso fianco a fianco con brand molto più grandi di noi». Poco prima la lettera aperta menzionava la «moderazione della crescita e il taglio della mole dei nostri prodotti» come potenziale soluzione alle emissioni. Il grande elefante nella stanza è dunque la produzione eccessiva: troppe collezioni, troppi brand, troppi prodotti riversati di settimana in settimana sul mercato. Il tutto diventa ancora più paradossale quando si pensa a come la sostenibilità sia diventata un selling point oltre che una giustificazione morale per produrre altri abiti, altre sneaker. Non è solo la produzione degli abiti a inquinare, ma anche il loro trasporto, il loro packaging, le spedizioni e, in breve, la loro stessa esistenza: come la country coordinator di Fashion Revolution per l’Italia, Marina Spadafora, diceva a nss magazine lo scorso settembre, «il capo di abbigliamento più sostenibile è quello che è già appeso nel nostro armadio».