5 cose da sapere sullo show di Gucci a Los Angeles
La lettera d’amore di Alessandro Michele alla Città degli Angeli
03 Novembre 2021
«[Los Angeles] è la città dove ho incontrato gli individui più peculiari, fuori dal tempo, refrattari a ogni idea di ordine. […] Una parata di creature incantate e profondamente libere che si muovono in un luogo dove né il futuro né il passato esistono», queste sono forse le parole più importanti delle show notes firmate da Alessandro Michele per lo show Love Parade di Gucci, tenutosi stanotte sull’Hollywood Boulevard di Los Angeles. Lo show è stata una lettera d’amore a Hollywood ma, più che celebrare esplicitamente il mito delle grandi star della Golden Age come molti avevano predetto, la collezione di Michele si è soffermata sul mitologizzare la fauna umana della città: starlette e regine di bellezza, aspiranti celebrità, divi del cinema. Indizio della sua ispirazione erano i cappelli da cowboy, i dettagli di activewear indossati insieme agli abiti eleganti, le scintillanti gonne da sera, le camice hawaiiane in pieno stile Hunter S. Thompson – tutti stilemi della Hollywood quotidiana, quella che s’incontra allo Chateau Marmont, nelle piscine dei produttori a Beverly Hills, alle fermate dei bus dove arrivano giovani attori di belle speranze. «La mia Hollywood è nelle strade», ha spiegato Michele a Vogue dopo lo show.
1. Hollywood Sadcore
Il termine Hollywood Sadcore è stato utilizzato per descrivere la musica di Lana del Rey nel lontano 2012 e si riferisce a musiche lente e dalle arie tragiche che mescolano il glamour della vecchia Hollywood con un senso di malinconia. E in effetti nello show c’è stato da un lato il vibe della Hollywood opulenta e decadente degli anni ’40, ’70 e ’90 – quella di Viale del Tramonto, quella di Boogie Nights ma anche quella nostalgica e allucinatoria di film di Lynch come Mulholland Drive e Strade Perdute. E in effetti Gucci è un brand profondamente mescolato al cinema, alle sue star, al suo jet-set. Il fascino della Hollywood di Marilyn Monroe e Veronica Lake però si mescola alla voce quietamente melodrammatica di Bjork, crea un’atmosfera eterea, nostalgica e bohemienne.
2. L’activewear e il trend della seconda pelle
Lo show di ieri notte ha inoltre consolidato quel dettaglio di styling già visto sparsamente in alcune delle principali sfilate di quest’anno che vede body, maglioni e leggings aderire al corpo come una seconda pelle e diventare la base di un layering fatto di pezzi più sartoriali. Prada, Raf Simons e Balenciaga hanno ciascuno condotto operazioni simili, Fendi ne condurrà una a breve con la sua collabo con Skims – tutte influenze venute dal boom che l’activewear ha avuto in pandemia ma che rappresentano anche un approccio che include il techwear/sportivo nello styling sartoriale, trend che già esisteva negli anni ’80 con Lady Diana ma che negli ultimi anni ha avuto un enorme traino, proprio da parte di celebrità moderne come Kim Kardasian e Hailey Bieber.
3. Gli headpieces anni ’20 e l’estetica Flapper
Quando pensiamo agli anni ’20 pensiamo spesso alle cosiddette Flapper Girls: vestiti di paillettes, boa di piume, capelli a caschetto e, soprattutto, i copricapi-gioiello detti comunemente Flapper Headpieces. Questo tipo di gioiello divenne associato agli anni ’20 perché quella fu l’epoca in cui le donne iniziarono a tagliare i capelli corti per la prima volta e, con la semplificazione del guardaroba, gioielli, cappelli e scarpe divennero i nuovi protagonisti degli outfit femminili. Gli headpieces divennero anche moderni: in risposta agli enormi cappelli dell’epoca post-Vittoriana appena conclusasi e seguendo le tendenze dell’Art Noveau, si produssero gioielli come ferroniéres e tiare e soprattutto copricapi ibridi, fatti di perle e cristalli, che decoravano le acconciature senza lasciarle scoperte – un taboo per l’epoca.
4. Le reference a Hunter S. Thompson
Thompson non è solo lo scrittore che ha inventato il concetto di gonzo journalism ma anche una delle più importanti e trascurate icone di stile degli anni ’70. Mescolare pezzi vintage e sportswear, usare enormi occhiali da aviatore arancioni, la calcolata trascuratezza usata nell’unire pantaloni con pince a camicie hawaiiane e cappelli da cowboy – tutti stilemi che fanno parte dell’eccentrica legacy di Thompson. Uno scrittore che, per altro, inventò una sua unica maniera di mescolare generi letterari, diventando un ribelle e un iconoclasta, ma anche sfidando l’idea di ciò che un intellettuale poteva essere e soprattutto come un intellettuale doveva vestirsi.
5. Alessandro Michele e la nuova moda autobiografica
Nelle sue show notes, Alessandro Michele ha parlato di come l’origine del suo amore del cinema fosse il lavoro di sua madre, che lavorava a Cinecittà a Roma e che gli raccontava da giovane dei grandi miti di Hollywood – facendo sviluppare nel designer una passione per il mondo dei film che lo portò a un certo punto anche a pensare di diventare costumista. Le cose sono andate diversamente. Allo stesso tempo il fatto che le show notes inizino come un racconto autobiografico fa notare come, sempre di più nelle ultime collezioni, i designer abbiano parlato di argomenti molto personali: dalle sneaker di Virgil Abloh che rievocano la sua passione per il merch di Michael Jordan da giovane fino a Oliver Rousteing che, sulla passerella di Balmain, porta le bende con cui ha convissuto per mesi dopo una grave ustione, negli ultimi mesi i designer hanno riscoperto la dimensione autobiografica dello stortytelling di moda.