Perché Bottega Veneta ha scelto Detroit per il suo nuovo show?
Daniel Lee, la techno music e la nuova importanza del mercato americano
21 Ottobre 2021
Il prossimo show di Bottega Veneta, che sarà anche il primo dopo molto tempo essere trasmesso in live-streaming, avrà una location abbastanza off the map per una sfilata di moda: Detroit. La capitale del Michigan è diventata nelle ultime decadi il simbolo della crisi del sogno americano del dopoguerra a partire dagli '70 e '80 quando si svuota e si trasforma in una delle più violente degli Stati Uniti, una crisi che culmina poi negli anni '90 e '00 quando la globalizzazione smantella le basi di Detroit Motor City, la mastodontica industria dell'auto. La città divenne l'emblema delle divisione razziali e di una paesaggio urbano - di cui la principale icona è diventata la Michigan Central Station - memore di un passato glorioso e di un presente tetro. Tuttavia proprio a partire dagli anni '80 quelli scheletri di cemento armato offrirono ai giovani della città l'habitat perfetto per una rivoluzione culturale che dal centro degli Stati Uniti avrebbe investito tutto il mondo: la tecno. Detroit è infatti riconosciuta come la culla della musica techno, un sound che ha raggiunto il suo picco di popolarità negli anni 00 grazie a dj come Richie Hawtin e Carl Cox, la cui influenza ha creato il mondo del clubbing come lo conosciamo.
La scelta di Daniel Lee di ambientare la sfilata Salon 03 a Detroit rientra nella più larga celebrazione del legame tra moda e clubbing, in continuità con il suo ultimo show al Berghain di Berlino, uno dei templi del clubbing europeo. Oltre alla cultura, Daniel Lee sembra percepire l'importanza del luogo - del club - come scenario creativo che - da Tokyo a Milano, passando per New York e Tbilisi - ha plasmato le personalità creative come Virgil Abloh, Hiroshi Fujiwara, Demna Gvasalia e Marcelo Burlon.
In un'intervista con 032c, Daniel Lee ha anche spiegato l’origine del suo interesse verso il mondo del clubbing: quando era giovane, andare a ballare era un’esperienza liberatoria per il designer, un’evasione dai limiti provinciali della sua cittadina inglese – e ancora oggi la techno è la musica che ascolta quando lavora fino a tardi nel suo atelier. Tornare dunque a Detroit dopo il suo passaggio a Berlino, significa tornare al luogo di nascita della techno e del clubbing. Fu lì che, Juan Atkins, Kevin Saunderson and Derrick May, noti con il nome collettivo di The Belleville Three, che iniziarono da adolescenti a creare musica sperimentale a casa propria e che già nel 1981 erano la go-to-music dei party di Detroit – canalizzando da un lato il synthpop e la disco europea e dall’altro unendovi una fascinazione per il suono post-industriale, la robotica e per l’estetica futuristica che permeava l’atmosfera culturale di Detroit, città costellata di rovine desolate e complessi industriali abbandonati con i loro enormi macchinari ma che nascondeva anche la speranza di una trasformazione sociale sotto l’aspetto dell’immaginario fantascientifico. Le ispirazioni per la techno dei Belleville Three e di altri gruppi come i Cybotron furono gruppi giapponesi ed europei come i Yellow Magic Orchestra, Cerrone e Visage ma anche Giorgio Moroder e in particolare la sua hit I Feel Love cantata da Donna Summer. Le giovani generazioni della città, circondate dalla desolazione socio-economica, ascoltavano la nuova musica durante leggendari rave riappropriandosi di quegli spazi urbani che i meccanismi della macroeconomia avevano distrutto per sempre: la vecchia fabbrica Packard, gli indirizzi senza nome come 1217 Griswold Street, l’Eastown Theater.
Il successo della prima ondata della Detroit Techno ne alimentò una seconda, durante gli anni ’90, che fece durare per almeno un altro decennio e mezzo lo status di capitale del clubbing underground di cui godeva la città. Fu durante questa seconda ondata che nomi come quelli di Jeff Mills, Carl Craig, Richie Hawtin e Carl Cox furono coinvolti nella scena musicale della città allargandone gli orizzonti in senso internazionale – un processo che culminò nel 2000 con il primo mitologico Detroit Electronic Music Festival all’Hart Plaza che ebbe visitatori da tutto il mondo e divenne in seguito il più importante festival di musica elettronca negli USA, oltre che una piattaforma da cui emersero numerosi talenti internazionali. Tanto a questo festival che nelle origini della techno esiste una natura eclettica e internazionale, che accoglie influenze degli artisti di tutto il mondo e le rielabora secondo il linguaggio di una community molto precisa. È dunque interessante notare come il genere musicale sia nato da una reinterpretazione dell’Eurodisco e dell’Italo-disco quasi a voler creare un parallelismo tra l’unione della cultura europea e italiana con quella americana con lo show di un brand che, dopo tutto, nasce come totalmente italiano (forse uno dei pochi brand di moda a recare nel suo nome l’indicazione geografica) ed è ora posseduto da un’azienda francese e diretto creativamente da un inglese che ha studiato a Londra e Parigi.
La scelta di Detroit potrebbe essere anche indicativa di un crescente interesse del brand verso il mercato americano. Secondo un report di Mastercard SpendingPulse riportato da WWD, la spesa nel settore del lusso è aumentata del 118% in America a Luglio rispetto al 2020 e del 54% rispetto al 2019. Nello specifico Kering, che possiede Bottega Veneta, ha visto un aumento delle vendite del 263% nel secondo trimestre dell’anno in Nord America e un altro recentissimo report di CNBC mostra come, dopo la pandemia, il 10% degli americani più ricchi possiede oggi l’89% degli stock azionari del paese mentre il volume del mercato azionario stesso è aumentato del 40% dal gennaio 2020. Una concentrazione record di ricchezza che ha reso il mercato del lusso negli USA il primo del mondo, con un giro di affari di 65 miliardi annui nel solo 2020 secondo Statista, e che dunque ha attirato l’attenzione dei grandi conglomerati sugli Stati Uniti. Non a caso, lo scorso maggio, Bottega Veneta era stato il primo brand di lusso ad aprire un negozio a Williamsburg, la principale “centrale” della gentrificazione di Brooklyn. Erwan Rambourg, global head of consumer and retail research per HSBC, ha spiegato a WWD:
«I recenti incentivi finanziari […] potrebbero aver avuto un'influenza, ma il vero cambiamento è più psicologico che finanziario. Da un punto di vista psicologico, il cosiddetto fattore di colpa che era prevalente dopo l'11/9 e di nuovo dopo la crisi finanziaria globale sembra essere evaporato. Il mercato del lusso statunitense è ancora frenato da una cultura del rapporto qualità-prezzo, ma una base di consumatori più giovane, più multiculturale e ricca è ora molto più disposta a spendere in brand di lusso».