La moda sa parlare ancora di politica?
Alexandra Ocasio-Cortez e Cara Delevigne ci hanno provato al Met Gala 2021
15 Settembre 2021
Tra gli outfit visti sul red carpet del Met Gala 2021 gli outfit a tema politico di tre donne sono stati i più chiacchierati e controversi della serata: Alexandria Ocasio-Cortez, Cara Delevigne e la parlamentare Carolyn Maloney. Ocasio-Cortez ha indossato un abito di Brother Vellies che recava la scritta gigante Tax the Rich, Delevigne vestiva il Dior di Maria Grazia Chiuri con un top/vest antiproiettile su cui era scritto Peg the Patriarchy mentre Maloney ha indossato un abito con tutti i colori delle suffragette con la scritta Equal rights for women.
È interessante notare, comunque, che tutti e tre gli outfit avessero il proprio claim stampato a lettere cubitali e ben visibili: un modo diretto e loud ma sopratutto molto Instagram-friendly per lanciare un messaggio politico da un evento che fa dell’estetica e della superficialità la sua sostanza. Com’era facilmente pronosticabile, tutti hanno attirato più di una critica e in particolare di Alexandria Ocasio-Cortez, il cui statement è stato definito da Vanessa Friedman, come una «complicated proposition» - ma che ha anche rilanciato un discorso interessante ed attuale: come può la moda parlare di politica? In un momento storico e culturale in cui la moda ha ripreso un posto centrale nelle definizione dell’identità sociale e politica delle generazioni più giovani, oltre al messaggio diventata importante il come veicolarlo evitando di cadere in un attivismo performativo ma cercando di ottenere risultati reali.
Alexandria Ocasio-Cortez attending the $35,000-a-ticket #MetGala in a Brother Vellies gown blaring "Tax the Rich" is a complicated proposition. pic.twitter.com/prxOojWxwx
— Vanessa Friedman (@VVFriedman) September 14, 2021
Proprio rispondendo alle critiche, Ocasio-Cortez ha pubblicato nelle storie Instagram un grafico che descriveva l’aumento delle ricerche online sulla tassazione – a dimostrazione dell’efficacia nella delivery del suo messaggio. La parlamentare, infatti, è sempre stata molto vocal sulla necessità di rivedere il sistema di tassazione USA e molti hanno trovato ipocrita la sua partecipazione a uno degli eventi più esclusivi degli Stati Uniti in cui un singolo biglietto costa 35.000 dollari – anche se i funzionari pubblici di New York sono sempre invitati al Met gratuitamente né Ocasio-Cortez era l’unica politica presente.
Una questione di sottigliezza
Nel corso della storia della moda, gli statement politici non sono mai mancati ma a cambiare è stata la loro delivery: la forma più esplicita e diretta sono sempre stati gli slogan, ma quella più rivoluzionaria è spesso passata una maggiore e provocatoria sottigliezza. Un grande esempio di unione riuscita fra politica e moda è lo smoking da donna creato da Yves Saint Laurent nel ’67, arrivato poco prima della Seconda Ondata Femminista e capace di esprimere il suo messaggio di liberazione sessuale soltanto grazie al suo concept: adattare il rigore e l’eleganza dell’abito maschile al corpo femminile, scambiare i ruoli prestabiliti.Altri esempi sono stati quelli di Olivero Toscani con i suoi poster per Benetton, progressisti e provocatori insieme; oppure Vivienne Westwood che negli anni ’70 protestava contro la dittatura di Pinochet con magliette con sopra le svastiche, negli anni ’80 si travestiva da Margaret Thatcher e prima del 2000 parlava di cambiamento climatico insieme alla collega Katharine Hamnett, che ha utilizzato entrambe le modalità, quella della sottigliezza con la trasformazione della minigonna in uno statement di emancipazione e quella della loudness con le sue t-shirt stampate con enormi slogan. Sempre sul lato della loudness si è collocata Maria Grazia Chiuri, con la sua t-shirt We Should All Be Feminists presentata allo show SS16 di Dior. Tutti quelli citati sopra, sono esempi di una comunicazione di moda che diventa provocatoria affrontando grandi temi – ma lo fa per lo più per immagini e, come si diceva, dal punto di vista progressista ma vago di un fashion designer.
Diverse sono le cose quando a comunicare un messaggio con il proprio abito è un politico. Essendo sempre dotati di una propria agenda, infatti, i politici possono vestirsi per creare un’immagine (pensiamo agli outfit da first lady di Michelle Obama o ai classici abiti bianchi in onore delle suffragette) ma si rischia sempre di incorrere in contraddizioni e passi falsi quando il messaggio diventa troppo letterale. Ocasio-Cortez ha ottenuto il suo obiettivo di diventare virale – ma sarebbe forse stato più adatto allo scopo un suo intervento pubblico durante il gala o una dichiarazione più seria, preparata e istituzionale. Fra l’altro qualcosa di simile era successo alla parlamentare quando aveva messo in vendita una felpa da 58$ con la stessa scritta Tax the Rich. In sostanza, un possibile errore di Ocasio-Cortez nella serata di ieri è stato quello di ricadere nello stereotipo della liberal elite, quella dei “comunisti col Rolex” per intenderci – stereotipo che fra l’altro è proprio quello in cui la moda si trova sempre a ricadere quando definisce i suoi design democratici e inclusivi ma li rende di fatto esclusivi col proprio prezzo. Una commodification del progressismo di cui Balenciaga ha dato un grande esempio rifacendo il logo della campagna di Bernie Sanders, un socialista democratico la cui visione politica non potrebbe essere più distante dall’idea di vendere una t-shirt per svariate centinaia di euro.
Allora chi può fare politica nella moda?
La risposta è solo una: i diretti interessati. Nel 2015 Pyer Moss denunciò la police brutality con la sua collezione SS16, con un video-essay con interviste ai familiari delle vittime e abiti macchiati di sangue, e nella SS19 inserì dei dipinti di Derrick Adams immaginando la vita della black community se non fosse mai esistito il razzismo. Un altro designer, Telfar Clemens, ha fatto statement politici molto coerenti e sottili evidenziando nei suoi show le contraddizioni e le discrasie dell’identità nazionale americana – anche attraverso l’iconoclastia di icone americane. Un simile lavoro di riflessione su temi politici è stato fatto da Thebe Magugu che nelle sue collezioni esplora fatti della vita nazionale del Sud Africa la corruzione o lo spionaggio. In Italia, uno degli statement politici migliori degli ultimi anni è avvenuto sulla passerella di Missoni per la collezione FW17, in cui le modelle indossavano il pussy hat, un simbolo contro le dichiarazioni misogine di Donald Trump e la famosa battuta “Grab’em by the pussy”, i cui proventi sono poi stati devoluti da Angela Missoni a due organizzazioni benefiche. Un esempio di statement molto sottile e soprattutto in linea con il linguaggio di un brand come Missoni, che è specializzato nella maglieria. In tutti questi casi, gli statement politici riguardano i designer e le loro community – senza estendersi ad argomenti più vasti e dunque ingestibili.
In generale, però, la moda di oggi è diventata uno dei principali strumenti di definizione identitaria per le nuove generazioni, specialmente in quest’epoca di attivismi e opinioni polarizzate, e macrotemi come l’oppressione e la sostenibilità sono affrontati dai brand più forward thinking e dai consumatori con iniziative concrete come l’upcycling, l’acquisto del vintage, il sostegno a business locali o comunque parte della propria community di appartenenza. La moda, in breve, è politica e lo è sempre stata, ma se si vuol fare politica attraverso la moda la maniera più antiquata di farlo è tramite enormi slogan, che non solo danno adito a contraddizioni e generalizzazioni, ma si traducono in una performance social che, al di là di uno spike nelle ricerche di Google, non hanno molto seguito.