Le scarpe stanno diventando sempre più "brutte"?
Da sneaker ciclopiche ai mule pelosi, lo strano è diventato il nuovo bello
01 Settembre 2021
Il trend delle cosiddette “ugly shoes” è forse uno dei più longevi della moda contemporanea. Guardando il footwear visto nelle principali sfilate, infatti, si nota che il footwear è andato sempre più allontanandosi dalle convenzioni e dalla tradizione classica: dalle scarpe piumose di Bottega Veneta, passando per le slide di JW Anderson sormontate da gargantuesche catene d’oro e per il variopinto ed eccessivo footwear di Gucci e Marni fino ad arrivare ai carrarmati di Prada e Rick Owens, pare quasi che la nuova regola sia diventata la sproporzione, il barocco, la stranezza. Tutte caratteristiche sottolineate da Jacob Gallagher in un recente articolo su WSJ e legate alla psicologia del mercato, come la psicologa Carolyn Mair disse a Vogue qualche anno fa, a proposito delle sneaker di Balenciaga e delle sculture delle stesse create da Diana Rojas:
«Gli psicologi hanno stabilito che non prestiamo attenzione a ciò che è "normale", usuale o familiare perché non presenta alcun pericolo. Tuttavia, quando incontriamo qualcosa di nuovo, la nostra attenzione è attirata su di esso. Quindi, oltre al comfort e al valore utilitaristico di queste scarpe, forse è il desiderio di attenzione che motiva chi lo indossa».
Proprio l’importanza dell’attirare l’attenzione si rifà non più all’aspetto aspirazionale della moda ma a quello identitario: in un mondo sempre più massificato, dominato dai social e dagli algoritmi, un item troppo tradizionale risulta anonimo e dunque invisibile, mentre sono proprio gli item riconoscibili e, per certi versi, “più rischiosi” che permettono alla clientela di esprimere con più decisione la propria identità. Ma in questa dinamica entrano in gioco anche fattori storici e sociali: con il lockdown e l’ascesa dello smartworking, infatti, la categoria della “scarpa da ufficio” tradizionale, linda e anonima, è venuta meno e i consumatori hanno preferito investire o su scarpe più comode per la casa o su un tipo di footwear radicalmente diverso, che esprimesse desideri, aspirazioni e identità di ciascuno in maniera più diretta e originale. I consumatori di tutto il mondo hanno insomma provato il bisogno di sperimentare – un bisogno che ha portato anche i brand al di fuori del mondo del lusso a puntare sull’audacia delle proprie proposte. Non a caso, tra 2020 e 2021 c’è stata un’impennata nella crescita di brand come Crocs e Hoka One, con le collabo di Salehe Bembury con New Balance e Anta (e con Crocs stesso) e di Rick Owens con Converse e con molti delle silhouette di Nike, non ultima la linea Zoom.
Il trend non risparmia nemmeno le scarpe più formali, con mocassini trasformati in ciabatte o ricoperti di loghi e pelli esotiche, stivali Chelsea dalla punta e dal tacco sempre più accentuati e silhouette sempre più tondeggianti e voluminose. Ma in questo quadro va tenuta in conto anche la questione della saturazione del mercato. In altre parole, in un mercato delle sneaker sempre più affollato, sempre più fitto di drop, release, debutti e collaborazioni, differenziarsi e farsi notare, ma anche raggiungere segmenti molto specifici della audience, è diventato una necessità. E dunque è avvenuta una divisione fra brand minimal-tradizionali come JJJJound, Aimé Leon Dore o Birkenstock, tutti improntati alla cleanliness delle silhouette e dei colori, e altri brand come i già citati Hoke One o Crocs, ma anche Ugg o un marchio di nicchia come Rombaut, a scommettere invece sulla stravaganza, su forme e colorway vistose, sulle stampe.
Persino i brand più minimal, infatti, non hanno ricalcato anonimamente la tradizione, ma hanno recuperato l’idea della dad shoe, elevandola e rendendola anch’essa il significante di un’identità, di un’appartenenza sociale improntata alla cleanliness, alla sobrietà di forme e colori e, per certi versi, alla nostalgia verso un passato recente ma anche meno caotico. In questo senso il lavoro di Justin Saunders con JJJJound è indicativo: la sua ultima collaborazione con Padmore & Barnes è una stringata di pelle nera volutamente demodé, ma proprio per questo eloquente come statement d’estetica. Lo stesso si potrebbe dire delle recenti collaborazioni del designer e curator canadese con Vans e Dr. Martens oltre che di sue release personali come un paio di stivali da trekking in suede, ma anche una miscela di caffè, occhiali da lettura e un set di palline per asciugatrice – tutti oggetti che dieci anni fa avremmo trovato a casa di un hipster, tanto prevedibili, analogici e tradizionali da sfociare nel quirky, che testimoniano però l’allineamento e l’aderenza a un lifestyle e, dunque, che dicono qualcosa di chi le sceglie.
In nessuno dei due casi, comunque, si riesce a sfuggire dalla dinamica che sta portando il footwear contemporaneo a diventare sempre più “brutto” – nel senso di eccentrico, di bizzarro, di originale. Persino le tradizionali, morbidissime scarpe di JJJJound sono, a proprio modo, eccentriche rispetto alla basicness dei modelli originari; persino i gettonatissimi Boston Clog di Birkenstock, che fino a qualche anno fa si sarebbero visti solo in un circolo di bocce, oggi vengono co-firmati da Stussy e Jil Sander e sono diventati indicativi di un’inclinazione, un’identità. Bisognerebbe dunque forse parlare di un’evoluzione verso l’alto dell’idea stessa di footwear, passato da strumento sociale differenziato per destinazioni d’uso (la scarpa da palestra, quella per uscire, quella per l’ufficio e via dicendo) a fenomeno commercial-culturale e segno di appartenenza sociale.