I brand di moda hanno distrutto il concetto di collaborazione
Di recente l'industria ha iniziato a muoversi verso approcci più corali, liberi e collaborativi
29 Giugno 2021
Negli ultimi anni la pratica della collaborazione è stata la panacea a tutti i problemi dei brand di moda. Una prassi che negli anni è andata sia elevandosi che banalizzandosi portando a due estremi: da un lato le collabo riuscite e di altissimo profilo come quelle di Dior con Travis Scott, sacai e Jordan, quelle di Gucci con The North Face e l'hacking di Balenciaga, quelle di Gaultier con la nuova politica dei guest designer o quelle di Valentino e Craig Green. Dall'altro una vasta massa di collaborazioni (specialmente relative alle sneaker) del tutto dimenticabili che coinvolgono celebrity dalle dubbie capacità di designer o personaggi così di nicchia da risultare astrusi. Eppure, fra le collaborazioni di maggior successo degli ultimi anni si ravvisa una nuova maniera di intendere questa pratica: quella cioè di abbracciare la natura collaborativa che la moda possiede già da sempre in favore di un approccio curatoriale da parte dei designer, da direttore d'orchestra piuttosto che da solista. La nascita di questo approccio curatoriale che supera il protagonismo del direttore creativo nello storytelling della moda insieme alla banalizzazione dell'idea di collaborazione stessa come evento stanno portando verso una nuova concezione più olistica, in cui il lavoro di un brand è più un cantiere collettivo che l'opera di un singolo creativo.
A proposito di questa nuova concezione, Thom Bettridge di Highsnobiety si è a ragione domandato se, ad esempio, la strategia multi-collaborativa di Kim Jones da Dior non avesse stravolto del tutto la natura di questa pratica. Come Bettridge fa giustamente notare, il metodo di Jones con il suo coinvolgimento di nuove maestranze come quelle di Yoon Ahn, Thibo Denis, Matthew Williams e Peter Doig è in effetti il nuovo metodo della moda, l'antidoto alla perdita di significato delle collaborazioni stesse, tanto onnipresenti da risultare ormai quasi insignificanti nella loro concezione originaria di crossover-evento. L'idea di collaborazione come irripetibile unione di due realtà separate sta lasciando il posto a una concezione "aperta": tante maestranze diverse lavorano insieme a un prodotto finale che trascende la semplice connotazione hype o di evento puntuale che esisteva prima e che invece evidenzia come la creatività nella moda di oggi e di allora è sempre più trasversale e network-oriented. L'approccio curatoriale e libero adottato da molti designer, fra l'altro, si basa sulla concessione di una totale libertà per il collaboratore, come è avvenuto per la collaborazione di Valentino e Craig Green, andando a risolvere il problema della realness della moda.
La vecchia idea di collaborazione è in realtà figlia di un mindset, tuttora esistente, che vedeva nel direttore creativo di una certa collezione l'unico demiurgo dell'estetica di un brand e che, nella sua continua reiterazione, ha anche finito per coinvolgere realtà così irrilevanti fra loro da rendere un po' obsoleta l'idea di hype che un tempo circondava certe release. Ovviamente questo tipo di narrativa è funzionale alla comunicazione di ciascun brand, che rende necessaria la presenza di un protagonista che ne diventi anche il volto ufficiale e il principale interlocutore. Questo ha però creato un meccanismo di protagonismo dei direttori creativi che, in base a quanto si legge in moltissime press release, sembrerebbero essere gli autori unici di ogni singolo item che finisce sulla passerella. Un meccanismo evidenziato anche da Prada nel febbraio 2020 con uno statement riportato da GQ che definiva l'ingresso di Raf Simons come co-direttore creativo della maison "una forte sfida all'idea della singolarità dell'autorialità creativa". E in effetti molti critici hanno sottolineato come, specialmente nell'ultima collezione, Simons abbia agito da curatore dell'archivio Prada, che ha poi reimmaginato.
Il futuro si muoverà probabilmente verso questa nuova direzione, anche se lo stato attuale in cui si trova l'industria è fondamentalmente ambiguo: se da un lato l'approccio di Kim Jones ha mostrato che una collezione di moda può diventare una sorta di cantiere collettivo per diversi creativi e che le migliori collezioni vengono concepite dai curator più che dai creator; dall'altro il successo commerciale delle molte collabo iper-brandizzate che spesso coinvolgono anche varie celebrity non accenna a fermarsi – anche se sono in molti a parlare di un'inflazione del sistema: troppe collaborazioni che introducono troppe poche novità nel design. La collaborazione, piuttosto, andrebbe abbracciata come nuovo metodo "collettivo" della nuova moda democratica post pandemia o piuttosto accettata come il metodo che la moda ha sempre seguito senza volerlo riconoscere, sacrificando il merito di tanti designer al protagonismo di un singolo direttore creativo.