Tutti i direttori creativi di Dior
Sono molti i designer passati da 30 Avenue Montaigne negli ultimi 76 anni
04 Giugno 2021
Per definire l’importanza di Dior sulla scena della moda basti questo aneddoto: alla morte del fondatore, nel 1957, l’allora CEO ante litteram, Jacques Rouët, propose di chiudere il brand ma, in quanto le esportazioni di Dior rappresentavano il 50% di tutte le esportazioni della moda francese di allora, tanto i licenziatari del brand che le autorità dell’industria della moda francese gli impedirono semplicemente di chiudere i battenti. Fu così che Yves Saint Laurent trovò il suo primo lavoro e, se le cose fossero andate diversamente, oggi probabilmente non avremmo né un Dior né un Saint Laurent – e il resto dello scenario del luxury fashion sarebbe immediatamente diverso.
È sorprendente comunque notare come , nel corso di 76 anni di vita, i maggiori talenti del mondo del design si siano avvicendati alla guida creativa del brand: Saint Laurent, Gianfranco Ferrè, John Galliano, Hedi Slimane, Raf Simons, Lucie Meier – tutti esempi di grandi creativi che hanno arricchito l’identità di un brand storico. E questo senza nemmeno contare gli attuali direttori creativi, Kim Jones e Maria Grazia Chiuri, e mettendo in posto tutto suo Marc Bohan, il direttore che ha gestito la casa per il tempo più lungo, che fra tutti ha avuto il merito di concepire la struttura del brand come la conosciamo ora, di fondarne la linea maschile e di inventarne il pattern più celebre, il Dior Oblique.
Per aiutare a fare un po’ di chiarezza nella successione, che nel corso dei rivolgimenti del management tendono a diventare un po’ confusionari e a sovrapporsi, ecco di seguito tutti i direttori creativi di Dior.
Christian Dior (1946-1957)
Il leggendario founder dell’eponimo brand aprì le porte del suo atelier di Avenue Montaigne il 16 dicembre del 1946. Aveva circa 80 dipendenti e un capitale sociale di sei milioni di franchi, con il finanziamento dell’imprenditore tessile Marcel Boussac. Fin dall’inizio Dior richiese un controllo totale sulla sua maison – controllo che fruttò molto bene quando per la sua collezione d’esordio, la SS47, presentò il celebre New Look che cancellò in un colpo solo anni di austerità bellica e annunciò al mondo della sartoria che i tempi bui del conflitto mondiale erano finiti. Insieme al New Look, Dior creò anche la divisione Profumi del brand e nel ’50 il CEO del brand, Jacques Rouët, e Dior stesso diedero scandalo creando il primo sistema di licenze per la produzione di cravatte e accessori pregiati in pelle e pelliccia. La mossa non fu apprezzata all’inizio dalla stampa, che ci vide una degradazione dell’haute couture, ma pagò molto bene negli anni. Nel frattempo avevano iniziato a lavorare per lui le future star Yves Saint Laurent e Pierre Cardin. Cinque anni dopo venne lanciato il primo rossetto solidificando lo status di Dior come primo impero della moda moderno e, nel marzo ’57, Dior apparve sulla copertina di Time. Nell’ottobre di quell’anno, dopo aver fondato e diretto il suo brand per 11 anni, Dior morì di attacco cardiaco lasciando l’azienda nel caos.
Yves Saint Laurent (1957-1960)
Rouët considerò l'idea di chiudere il brand alla morte del suo fondatore ma la stazza dell’impero Dior era semplicemente così grande che, scomparendo, si sarebbe portato dietro l’intera industria della moda. Il giovanissimo Saint Laurent era già assistente di Dior e direttore dell’atelier e si ritrovò da un giorno all’altro a fare il direttore creativo. Dopo una prima collezione di successo, il giovane Yves decise di osare e lanciò il Beat Look, ispirato ai bohémien e agli esistenzialisti che popolavano i caffè di Parigi. La nuova estetica tanto vicina alle culture giovanili di allora scandalizzò i circoli della couture francese, allora estremamente conservatrice. Le recensioni furono pessime, l’umore di Saint Laurent sprofondò e il CEO Marcel Boussac era furioso. Nello stesso anno, in maniera quasi provvidenziale, il giovane Yves venne chiamato alla leva militare e dopo sei collezioni, abbandonò il brand. Due anni dopo avrebbe fondato quello che oggi conosciamo come Saint Laurent.
Marc Bohan (1960-1989)
Il nuovo direttore creativo della maison fu Marc Bohan, un altro dei protégé di Christian Dior. La sua linea estetica era molto più conservatrice ma il suo fiuto per gli affari incredibile: considerato universalmente il salvatore del brand, lanciò la prima linea prêt-à-porter nel ’67 affidandola a Philippe Guibourgé, creò il pattern Dior Oblique per la collezione SS69 e, nel ’70, lanciò Dior Monsieur, che sarebbe poi diventato Dior Homme. Nel frattempo il business dei profumi cresceva e, nel ’68, si creò la prima liasion con Moët-Hennessy che acquistò la Dior Parfums avviandosi in futuro a diventare la LVMH dopo l’acquisizione da parte di Bernard Arnault negli anni ’80. Lo stile di Bohan si potrebbe riassumere nel suo motto: «Creare abiti sofisticati in maniera semplice, con un tocco d’insolenza di tanto in tanto».
Gianfranco Ferrè (1989-1997)
Dopo che Bohan lasciò il brand per tornare a lavorare a Londra, l'italiano Gianfranco Ferrè venne incaricato di prendere il timone del brand. Più intellettuale che romantico, Ferrè portò un nuovo spirito architettonico nelle quindici collezioni couture che disegnò per il brand. I suoi schizzi rivelano il nuovo approccio che venne definito dal giornalista Kevin Almond come «raffinato, sobrio e severo»: le linee dei suoi disegni sono quasi astratte, tutte movimento e lampi di colore. Nel frattempo grazie alla direzione di Arnault, che preferiva la scarsità all'accessibilità, le licenze vennero dimezzate, vennero aumentati i flagship e, nel ’95, i profitti del brand toccarono il miliardo di franchi. Nel ’97 però Ferrè desiderava occuparsi solo del proprio brand e tornare a Milano mentre Arnault non voleva rinnovargli il contratto, prevedendo con molta sagacia il cambiamento dei tempi – fu così che il designer italiano lasciò la direzione della maison.
John Galliano (1997-2011)
Suggerito ad Arnault da Anna Wintour, l'inglese John Galliano divenne il nuovo direttore creativo del brand. Il fatto che fosse inglese fece arrabbiare molti anche se il CEO Arnault lo paragonò al founder stesso per il suo stile romantico e femminile sottolineando che il talento non conosce nazionalità. L'audacia fu il marchio distintivo del lungo regno di Galliano da Dior: la collezione ispirata ai clochard suscitò scandalo, la Saddle Bag divenne una hit assoluta, gli spazi di Avenue Montaigne furono restaurati e re-inaugurati con un'epica cerimonia, le nuove campagne del brand includevano (sull'onda del porno-chic lanciato da Tom Ford con Gucci) forti suggestioni sessuali e una certa sensibilità pop, le sue sfilate couture erano quasi esperienze mistiche con Marie Antoniette insaguinate, donne in armatura e treni a vapore che percorrevano la passerella. In spettacolarità lo batteva solo Alexander McQueen. Ancora oggi l'epoca di Galliano viene ricordata come la più adrenalinica ed elettrizzante nella storia del brand – ma si concluse malissimo nel 2011 con le accuse di dichiarazioni anti-semite attribuite a Galliano che venne licenziato senza poter nemmeno vedere la sua ultima collezione sulle passerelle. Bill Gaytten venne assunto nel periodo di interregno, presentò due collezioni couture abbastanza dimenticabili mentre il brand affrontava un momento di ridefinizione prima di trovare il suo nuovo direttore creativo.
Hedi Slimane (2000-2006)
Nel frattempo, con il volgere degli anni 2000, anche Dior Homme venne rilanciato. A partire dal '92 il suo designer era stato Patrick Lavoix, ma quella era un'epoca in cui il menswear non era davvero creativo: l'uomo vestiva in modo classico e poco si faceva per cambiare quella tradizione. Ma Arnault cambiò tutto portando Hedi Slimane, allora agli esordi con alle spalle solo il ruolo di designer per Yves Saint Laurent, a dirigere il nuovo Dior Homme. Molti attribuiscono a Slimane la responsabilità di avere reso desiderabile e creativo il menswear portando sulla passerella un nuovo look ispirato ai circoli del rock indipendente, creando un'estetica dark e sensuale, ma anche anarchica e in rotta con il trend della sartoria oversize, proponendo una silhouette strettissima che attirò star come Brad Pitt, Jack White e Mick Jagger verso la moda – finalmente il menswear e il womanswear si allineavano, almeno nel prêt-à-porter. Yves Saint Laurent, presente in prima fila, concesse a Slimane una standing ovation mentre Karl Lagerfeld decise di perdere circa 45 chili per entrare nei suoi completi. Dopo che le negoziazioni per aprire un suo brand non andarono in porto, però, Slimane lasciò il brand nel 2006 dopo averlo rivoluzionato. Non sarebbe tornato al mondo della moda per altri sei anni.
Kris Van Assche (2007-2018)
Per undici lunghi anni Van Assche diresse le collezioni di Dior Homme – una tenure così lunga che coprì ben tre ricambi di direttori creativi. Durante quest'epoca il fondamentalismo dark di Slimane e la sua caotica estetica pop-punk (il suo linguaggio si raffinò meglio da Saint Laurent) vennero modulati e attenuati, il lato sartoriale spinto e reinventato in una visione meno aggressiva, i look divennero più puliti e vennero piantate le radici di quella sensibilità streetwear che Kim Jones avrebbe portato a compimento negli anni successivi. La fusione di sartoria e streetwear iniziò con lui e con la sua visione progressista, fu sempre Van Assche ad associare A$AP Rocky a Dior e collaborò con Larry Clark, Willy Vanderpierre ma anche The xx e Radiohead oltre a una serie di artisti indipendenti, aprendo di fatto quella tradizione di collaborazioni con il mondo dell'arte che sempre Jones avrebbe fatto diventare in futuro una regola. Il designer disse una volta a Dazed: «Mi interessa sintetizzare generazioni diverse e filtrare le subculture attraverso la mia lente personale per creare una nuova storia».
Raf Simons (2012-2015)
L'inquieto e geniale Simons arrivò da Dior nel 2012. I suoi tre anni alla direzione del brand sono considerate come uno dei punti più alti del brand e al suo primo show couture venne dedicato il bellissimo documentario Dior and I. Fu un periodo di enorme successo, con un aumento del 60% delle vendite, e una decisa ripresa dopo il caos e l'estasi portati da John Galliano. Simons portò molta modernità al brand, non tanto nelle collezioni in sé ma quanto nella lavorazione delle collezioni: in un momento del documentario si vede Toledano chiedere alle lavoranti dell'atelier di chiamarlo Raf invece che "monsieur" come esercizio di modernità. La pressione lavorativa però si fece eccessiva, non tanto sul piano dell'operatività, quanto su quello creativo. Simons disse a The Cut: «Quando si fanno sei show l’anno non c’è tempo per l’intero processo. […] Non c’è tempo per l’incubazione delle idee e la loro incubazione è un momento molto importante». Nel 2015, insomma, andando contro le attese di Arnault e dell’intero mondo della moda, Simons decise di non rinnovare il suo contratto e concentrarsi sul proprio brand anche se, già l’anno dopo, Simons firmava con Calvin Klein. Nell'interim vennero nominati come direttori creativi Serge Ruffieux e Lucie Meier.
Maria Grazia Chiuri (2016-oggi)
Maria Grazia Chiuri è la prima donna a dirigere da sola l'atelier di Dior in tutta la storia del brand. In precedenza, aveva diretto insieme a Pierpaolo Piccioli la produzione di Valentino per otto anni, ed era entrata nel brand sette anni prima. Chiuri ha cambiato molto l'estetica del brand, portando un più aperto approccio femminista alle creazioni del brand insieme a un'estetica particolarmente giovanile. La tenure di Chiuri ha segnato un momento di forte successo commerciale per il brand mentre la sua couture ha rappresentato una fase di neo-classicismo per il brand, che è ritornato a una dimensione più familiare, dopo gli intellettualismi di Simons e la drammatica teatralità di Galliano.
Kim Jones (2018-oggi)
Dopo che Van Assche venne rilocato alla direzione di Berluti, l'ex-direttore creativo di Louis Vuitton, Kim Jones, venne chiamato a sostituire Kirs Van Assche e portare un mood nuovo e giovanile da Dior Homme. Le sue collezioni hanno sicuramente ribaltato l'estetica morbida ma formale di Van Assche in favore di un approccio estremamente più pop: la sua sfilata d'esordio si svolse sotto le insegne di KAWS, un letterale schiaffo alla formalità nereggiante e scolastica di Van Assche – il riferimento al nero non è causale perché, volendo confrontare le palette cromatiche delle sfilate di Jones con quelle del precedessore, la principale differenza è proprio l'alleggerimento e la freschezza dei colori, passati dallo scuro al vivace, anche grazie a una ricerca di materiali naturalmente luminosi e riflettenti che fanno sembrare vivaci anche collezioni predominantemente scure come la FW19.