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Allo streetwear interessa davvero la sostenibilità?

Sono pochissimi i brand del settore ad offrire modelli di business davvero green

Allo streetwear interessa davvero la sostenibilità?  Sono pochissimi i brand del settore ad offrire modelli di business davvero green

Che ormai la sostenibilità sia uno degli argomenti più discussi dell'industria della moda non è una novità, ma quando si parla di prodotti sostenibili e brand che cercano di ridurre il proprio impatto ambientale, si tende a pensare a tre tipologie specifiche di realtà: piccoli brand emergenti che fanno dell'essere green uno dei loro pilastri; i grandi nomi del fast fashion fino ad ora demonizzati, che cercano di correre ai ripari; le storiche maison del lusso, spesso parte di grandi conglomerati, che tentano di tornare sulla retta via. Manca, in questo paesaggio, un settore importante: lo streetwear

A parte rare eccezioni - a cui arriveremo più avanti - il mondo dello streetwear sembra immune al dibattito e alla riflessione sulla sostenibilità ambientale, una lacuna da ricondurre alla natura intrinseca del settore e alla sua storia. Se pensiamo ai brand più rappresentativi del settore, come Supreme e Palace, è il loro business model ad essere in completa antitesi rispetto alla definizione di sostenibile. Il sistema del drop settimanale alimenta infatti un consumismo spasmodico e sconsiderato, che rende obsoleta la collezione uscita la settimana precedente, spingendo i consumatori ad accaparrarsi a tutti i costi gli item in uscita la settimana successiva. È un circolo vizioso che si alimenta grazie all'hype e alla continua ricerca della next big thing imperdibile da avere a tutti i costi. Storicamente, poi, gli item prodotti dai brand di questo mercato hanno un valore culturale più che materiale, prodotti che devono essere il simbolo di una community e dell'appartenenza a quel gruppo sociale, per cui i materiali e la composizione di quell'item passano in secondo piano, tanto per il brand che per il pubblico. 

In questo momento storico, sarebbe quasi strano e sospetto iniziare a sentire Supreme parlare di sostenibilità e Palace di tutela ambientale, ma la questione dei materiali utilizzati può essere un buon punto di partenza per rendere il settore, almeno in parte, più sostenibile, e in questo senso ci sono delle avvisaglie che fanno ben sperare. All’inizio di aprile, infatti, Stüssy ha rilasciato la sua nuova collaborazione con il brand green svedese Our Legacy, realizzata utilizzando stoffe e materiali proveniente dal deadstock del brand Californiano. La capsule collection sembra essere stata apprezzata soprattutto in Italia dove, come riportano i dati di Stylight, la più grande piattaforma di ricerca di moda, beauty e design al mondo, i clic per il brand Stüssy sono aumentati del 91% una settimana dopo il lancio della collezione. 

Le eccezioni a cui accennavamo prima sono rappresentate da tre brand che hanno modelli opposti, ma sempre votati al green. Patagonia, ad esempio, una B Corporation, ha fatto della tutela ambientale uno dei suoi benchmark, ma è stato adottato dal mondo street più per la sua estetica e per la qualità dei suoi capi, più che per la sua mentalità, che ha fatto fatica ad arrivare al pubblico del settore. Noah e Solland, invece, sono due ottimi esempi di come ripensare il proprio business in chiave green. Noah ha intrapreso una politica ben precisa, diventata famosa con il manifesto We Are Not A Sustainable Brand, e che da lì in poi è proseguita con il rifiuto del Black Friday e con una comunicazione molto più trasparente sulla composizione e la produzione dei suoi prodotti. Allo stesso modo, circa due anni fa, Soulland ha deciso di ristrutturare completamente il proprio business model per renderlo davvero sostenibile, un processo graduale che ha portato al cambiamento dei materiali utilizzati per i capi best seller del brand e il loro prezzo, sacrificando parte dei profitti per la causa ambientale. 

È il mondo delle sneaker a fornire esempi di successo di una mentalità green applicata ad un settore molto redditizio, pensiamo alla partnership di adidas con Parley for the Oceans, che utilizza fino al 75% di plastica riciclata, o all'impegno di Nike per combattere lo spreco e l'uso di materiali riciclati. Due granelli di sabbia in un mercato che produce quasi 25 miliardi di paia di scarpe all'anno, e che per certe release non differisce poi tanto dalla mentalità street. 

Mentre i brand devono ripensare il loro modello di business o quanto meno il volume della loro produzione (i marchi streetwear producono in media 350 item diversi), tocca anche al pubblico, soprattutto a quello più giovane, di cambiare mentalità. Come viene ripetuto spesso e come riportano diverse ricerche, sono le nuove generazioni il pubblico più attento e responsive su questo tipo di tematiche, ed è un pubblico che in larga parte acquista questi brand e che avrebbe dunque voce in capitolo e un certo potere se dovesse decidere di boicottare o chiedere maggiore trasparenza ai brand streetwear. Sempre che il prossimo drop non sia troppo importante.