Perché gli archivi sono la più grande ricchezza dei brand
Il nuovo main asset nella moda dei grandi conglomerati
21 Dicembre 2020
Prima è toccato a Tiffany & Co., acquistato con fatica da LVMH, e Supreme, entrato in VF Corp dopo decenni di indipendenza. Poi c’è stato Stone Island, acquisito da Moncler con una mossa a sorpresa. Infine hanno cominciato a circolare le voci sul gruppo OTB e Jil Sander che fanno presagire una prossima acquisizione del brand da parte di Renzo Rosso. Verso la fine del 2020, sempre più brand storici ancora indipendenti preferiscono accorparsi a un qualche conglomerato, seguendo l’adagio che dice: «Nessuno vince da solo».
Nell’acquisizione di un brand, sono molti i fattori che concorrono a stabilirne il valore. Tra questi ci sono il posizionamento sul mercato e la performance commerciale ma c’è un terzo fattore che non solo è tanto rilevante quanto i primi due, ma che nel corso del 2021, se la politica di acquisizioni proseguirà, si rivelerà essere sempre più prezioso. Si tratta dell’archivio di un brand – quella massa di trademark, modelli, campioni, ricerche, bozzetti, stampe e design che costituisce il patrimonio genetico di ogni maison di moda.
Per capire l’importanza commerciale dell’archivio, serve raccontare un episodio spesso tralasciato che riguarda proprio un brand “defunto” che è stato acquisito proprio per il suo archivio: Patou. Fondato nel 1914 come Jean Patou Paris, questo brand di moda aveva goduto di una grande fama a metà del secolo scorso, andando a scemare in rilevanza fino a chiudere definitivamente nel 1996. In quei quasi ottant’anni di attività l’archivio del brand era arrivato a contenere haute couture, ready-to-wear, linee di profumi e accessori. Un patrimonio su cui, diciannove anni e due passaggi di mano dopo, mise gli occhi LVMH, che lo acquisì, fra gli altri motivi, perché fra i trademark del brand c’era un famosissimo profumo di nome ”Joy” - un nome che Dior intendeva usare (come poi ha fatto) per uno dei suoi profumi più venduti. Due anni fa al brand è stato dato un nuovo direttore creativo e, al momento, rimane attivo ma lontano dall’orbita del luxury fashion in cui tutti gli altri marchi di LVMH invece ruotano. Tutto il suo valore non si concentra nelle vendite (si può sempre rilanciare il brand più tardi) ma nel suo archivio, i cui materiali sono ora a disposizione del gruppo.
Sono invece più frequenti gli episodi di brand che sfruttano la forza del proprio archivio: Raf Simons che fa una re-issue di 100 item tra i più celebri del proprio archivio, in pratica una piccola collezione a latere che era già disegnata e progettata; Kim Jones che usa il motivo Oblique di Dior, prodotto nel 1967, unendolo alla Saddle Bag di John Galliano, trasformandola in uno degli accessori maschili più di culto degli ultimi anni; l’incredibile successo di tutte le reincarnazioni della Jackie Bag di Gucci, rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi anni, ma reinventata tanto da Alessandro Michele che da Frida Giannini prima di lui; Ralph Lauren che ripesca nei suoi design anni ’90 per la sua sportswear capsule con MyTheresa.
Ma perché il valore dell’archivio dovrebbe andare aumentando, considerata già la sua centralità? Due motivi: il primo è la nascita di un movimento digitale di nome archival fashion, ossia un nuovo ecosistema di pagine social, showroom, archivi Instagram e personalità dell’ambiente che hanno riportato in auge, nell’internet talk, l’apprezzamento e la conoscenza minuziosa degli archivi dei più importanti brand di moda; dall’altro il nuovo amore del vintage che sembra essersi sviluppato nel pubblico negli ultimi anni, che parla sia alle issues della democraticità della moda che a quelle della sostenibilità, ma che soprattutto indica ai brand quali sono state in passate, e quali saranno di certo in futuro, le carte vincenti da giocarsi col pubblico.