Il declino di Topshop e la fine del sogno 'high street'
Il brand simbolo dell'estetica Brit anni Duemila rischia il fallimento
03 Dicembre 2020
Alla lunga lista di brand colpiti in modo irreparabile dalla pandemia, in particolare tra quelli appartenenti al settore fast fashion, si aggiunge ora Topshop. Arcadia Group, la società madre del brand fondata e guidata da Philip Green, che possiede tra gli altri anche Topman, Miss Selfridge, Dorothy Perkins, Evans e Burton, lunedì scorso è entrata in quella che viene definita administration, è stata cioè commissariata. I brand dell’azienda continueranno ad operare in attesa di un compratore e sarà l’azienda Deloitte a supervisionare questo periodo di transizione.
Non si tratta certo di una notizia improvvisa e inaspettata, perché come altri brand del settore, primo fra tutti H&M, Topshop versava in cattive acque da ben prima della pandemia. Per certi versi, però, quello di Topshop rappresenta un declino ancora più eclatante e drammatico, perché con esso finisce anche il vero momento d'oro della moda high street, che aveva colmato quel vuoto tra fast fashion più cheap e prêt-à-porter, trovando una posizione intermedia che permettesse ad una grande massa di consumatori di avvicinarsi alla moda con prodotti cool e di successo. Soprattutto dall'inizio degli anni Duemila e per il decennio successivo, Topshop era il brand più cool del Regno Unito - e di riflesso del mondo: sfilava due volte l'anno durante la London Fashion Week con la linea Topshop Unique (l'ultimo show si è tenuto nel 2017); organizzava party ed eventi esclusivi con le celeb più in vista della scena, da Alexa Chung a Cara Delevigne; Kate Moss firmava una collezione continuativa con Topshop e il brand aveva realizzato capsule con designer al tempo emergenti, come Christopher Kane e JW Anderson.
Un'aura di coolness che ha coinciso con il momento di massima espansione di quell'estetica Brit che ha fatto la fortuna della già citata Chung o di altre style icons popolarissime su Pinterest, come Sienna Miller e Pixie Geldof, che è però rimasta schiacciata da un modello di business antiquato e da una competizione troppo agguerrita. Competitor come Zara sono riusciti ad intercettare i trend ad un ritmo più veloce, ad un prezzo più basso e trovando una comunicazione social più efficace, tutte azioni che Topshop non è riuscito ad implementare. Più di tutto è mancato quel passaggio da fisico a digitale che ha avuto effetti decisivi su molti brand durante il lockdown, rafforzandone alcuni e irrimediabilmente danneggiandone altri. Topshop si reggeva ancora su un modello brick-and-mortar, quindi su una rete capillare di store diffusi in diversi continenti (nonostante non in tutti ci sia stata la stessa accoglienza, ad esempio il brand non è mai riuscito a sfondare veramente negli Stati Uniti), un modello che ha già decretato la fine di grandi department store come Neiman Marcus, J Crew e Barney’s New York. La forte ed efficace presenza digitale è quella che ha garantito il successo di piattaforme come Asos, Boohoo e Pretty Little Thing, i competitor più temibili per Topshop.
Il problema di Topshop è la sua identità: non è più chiaro a chi si rivolge, per chi è pensato, chi dovrebbe essere il consumatore finale. Ci sono ancora molti brand che prosperano con un grande network di store, ma il successo deriva anche da una targetizzazione precisa del proprio pubblico: Brandy Melville si rivolge alle generazioni più giovani, Primark ai consumatori che vogliono spendere di meno, Zara al pubblico più fashionista. Topshop a chi si rivolge? Il suo modello di business e la sua estetica sono rimasti fermi ai suoi anni di massima espansione, non riuscendo a reinventarsi di fronte ad una generazione di consumatori cambiata, più attenta, più sicura dei propri mezzi, di quello che cerca e di dove trovarlo.
Sir Philip Green, fondatore dell'Arcadia Group e proprietario di Topshop, ha rappresentato un grande problema per il brand negli ultimi due anni, come racconta bene questo articolo del Guardian, che già all’inizio del 2019 decretava la sostanziale fine del brand. In piena era #metoo, Green era stato investito da accuse di molestie e bullismo, accuse che avevano fatto fallire anche l’accordo con Beyoncé, che inizialmente avrebbe dovuto disegnare (e vendere) la sua collezione Ivy Park insieme a Topshop, salvo poi passare ad adidas. Green non sarebbe stato in grado di ottenere un prestito da 30 milioni di sterline da potenziali finanziatori, portando il gruppo alla situazione in cui si trova ora.
Il commissariamento mette in ogni caso a rischio oltre 13mila posti di lavoro e la possibile chiusura di 400 store. Sembra comunque che ci siano già dei possibili acquirenti, interessati in particolare a Topshop e Topman, i brand con l'heritage più forte e ancora con una grande riconoscibilità, che potrebbero essere completamente snaturati e ristrutturati dopo l'acquisizione. Tra gli acquirenti interessati ci sarebbe lo stesso Boohoo Group, gigante del fast fashion online UK, che in un certo senso rappresenta l'evoluzione 2.0 delle ambizioni e dell'estetica di Topshop. Secondo molti analisti, se Topshop e tutti i brand del gruppo non riuscissero ad evitare il fallimento, Arcadia diventerebbe il più imponente caso di corporate collapse in Gran Bretagna ai tempi della pandemia.