Quando la moda diventa trolling
L’industria del lusso prende in giro se stessa o i suoi consumatori?
18 Novembre 2020
Ieri, la release delle sneaker e del merch di Lidl ha spinto centinaia di persone ad accamparsi fuori dai supermercati della catena tedesca per aggiudicarsi un prodotto che, pur non potendo vantare alcun valore estetico, possiede già uno stato di cult e ha alimentato centinaia di meme online. Quando si compra una sneaker di Lidl, non si sta comprando veramente una scarpa, ma un concept ironico del tutto immateriale - una presa in giro dell’intera hype culture, un vero e proprio trolling che racconta però molto delle più recenti evoluzioni della fashion culture. È già da qualche anno infatti che l’alta moda ha fatto proprio il concetto di trolling: Gucci che vende collant bucati, borse con la scritta Fake e jeans con macchie artificiali d’erba a prezzi da capogiro, Demna Gvasalia che, con Balenciaga, copia il suo stesso lavoro da Vetements per poi auto-denunciarsi online o che fino a qualche anno fa organizzava una sfilata in un McDonald’s. L’arte del trolling online, il concetto di triggering, puntano ad attirare l’attenzione degli utenti suscitando emozioni viscerali: scandalo e indignazione creano memorie ostinate, ricordi tenaci sempre chiari nella mente del consumatore finale, che tenderà a ricordare più un marchio che per un verso o per l’altro lo scandalizza che uno di grande valore ma che non suscita la stessa virulenta reazione.
Il nodo della questione, qui, ha però a che fare con un umorismo che non è diretto ma meta-riflessivo. Sembra cioè che brand sia grandi che piccoli abbiano iniziato a sfidare i presupposti stessi del lusso con una sorta di autoparodia o ironia che può avere esiti felici (e qui pensiamo ai sosia delle celebrità e alle magliette DHL di Vetements o al gilet di Sunnei con la scritta I hate fashion, che ha fatto il giro dei moodboard di Instagram) o infelici – come ad esempio gli esosi collant bucati di Gucci che, pur essendo andati sold-out, simboleggeranno sempre le derive più grottesche del passaggio da vecchio a nuovo lusso, ossia da un valore puramente materiale a uno sempre più sfumato, psicologico e concettuale.
La distorsione parodica, l’autoreferenzialità e la viralità sono lo scopo ultimo di queste trovate e creano un parallelismo tra un certo filone della moda e il mondo dei meme – che per i netizens di tutto il mondo sono semplici immagini ripetitive e divertenti ma che sociologia e antropologia classificano come l’unità basilare dell’evoluzione culturale umana, costituita da frammenti di cultura che si auto-propagano come un virus. In questo senso, ad esempio, qualunque argomentazione a sfavore dei collant di Gucci può essere risolta dicendo: «È vero, ma sono riusciti a fartene parlare». Questo stesso articolo, in fondo, rappresenta un’ulteriore propagazione di tutti questi meme di cui il mondo della moda è popolato.
Ovviamente dietro il fenomeno non si nascondono chissà che cabale o misteri antropologici, ma le fredde e spietate logiche del marketing moderno: in un mondo in cui i contenuti pubblicitari sono ovunque, bisogna usare la forza e l’oltraggio per catturare l’attenzione. È più economico far parlare di sé con un prodotto che diventa un meme che con una ambiziosissima campagna di moda, i brand vendono purché si parli di loro. Tanto più che diventare un meme, nel 2020, equivale a essere beatificati.
Ma il trolling della moda presenta anche spunti di analisi interessanti, che dimostrano in che termini il concetto di lusso si vada intellettualizzando, facendo passare in secondo piano la perfezione estetica o la qualità dei materiali rispetto a un concept puro – che diventa un elemento immateriale che, paradossalmente, può essere indossato. Il risvolto negativo però è la maniera in cui ciò che vent’anni fa era creatività pura (per fare due esempi banali, la decostruzione degli abiti e delle silhouette o l’esplorazione/nobilitazione del trash di Jean Paul Gaultier) finisca per scorrere sempre più a valle verso il mainstream spogliandosi della sua serietà per diventare gimmick, espediente commerciale o comunque caratteristica solo superficiale di un processo creativo subordinato alla comunicazione, che pone più enfasi sullo storytelling del brand che sui suoi effettivi prodotti, rendendo la moda qualcosa di bidimensionale e facendo sembrare appiccicaticcia la cultura che la circonda. Gli scherzi sono belli ma solo quando durano poco.