Com’era Gucci nei primi anni 2000?
Ritratto di una moda che non c’è più
22 Marzo 2024
Per quasi otto anni ci siamo riempiti gli occhi e i ricordi dell’estetismo nostalgico ed esoterico che Alessandro Michele ha ideato per Gucci - così tanto in effetti che il ricordo di ciò che Gucci era tra la fine degli anni '90 e per tutto il primo decennio dei 2000 sta iniziando a sbiadire. E ora che Sabato De Sarno ha iniziato a rievocare ed esplorare i grandi classici della storia del brand, filtrandoli attraverso la lente contemporanea e minimalista della sua visione artistica, è bene esplorare l'evoluzione estetica del brand negli anni in cui l'assenza dei media digitali sviluppati come i nostri e di social media rendeva più difficile seguirne ogni mossa e collezione.
Non serve, per ora, raccontar troppo: basta osservare come sono cambiate le etichette del brand. Con Tom Ford e Frida Giannini, sotto il cui controllo Gucci era diventato sinonimo di un’estetica da jet-set, ovattata e minimalista, le etichette erano nere e sottili, quasi invisibili; sotto Alessandro Michele quelle stesse etichette si sono quadruplicate in misura, il nome di Gucci è diventato grande e nero, a contrasto col tessuto zigrinato e quasi opalescente su cui è cucito, circondato da un severo bordo scuro. Il passaggio fondamentale dalla vecchia alla nuova moda sta tutto qui – racchiuso in un’etichetta che è il simbolo più essenziale di uno shift che, più che riguardare i designer, riguarda la cultura che circonda la moda.
Dal 2006 al 2014, i lavori del team di design di Gucci si svolgevano sotto gli occhi azzurro ghiaccio di Frida Giannini. Prima di lei, per oltre dieci anni, era toccato a Tom Ford dirigere il brand – che al suo arrivo aveva già praticamente un piede nella tomba. All’arrivo di Ford, il brand si trovava in grosse difficoltà finanziarie e aveva bisogno di un direttore creativo che sapesse reinterpretarne l’heritage per il mondo degli anni ’90. I design di Ford erano minimalisti e sofisticati da un lato e incredibilmente sexy dall’altro. Un tipo di estetica perfettamente rappresentata dalle celebri (e scandalose) campagne di Gucci dell’epoca, in cui modelli e modelle erano vestiti, sì, ma sembravano sempre essere sul punto di spogliarsi. I nudi e seminudi abbondavano nelle sue campagne, i riferimenti ai fetish e al sesso di gruppo fanno arrossire i perbenisti anche a distanza di vent'anni e ce ne fu una, non si sa se celebre o famigerata, in cui i peli pubici di una modella erano tagliati a forma di “G”.
L'era di Tom Ford
L’enfasi dei design di Tom Ford poggiava sulla silhouette, sulla sua esaltazione del corpo attraverso un uso opulento dei materiali. La principale differenza con il Gucci odierno ruotava intorno alla personalità del brand: con Tom Ford, l’abito era un complemento del corpo; con Michele, è il corpo a diventare complemento dell’abito. Da questa cruciale differenza scaturivano le opposte visioni dei due designer e ciò era dovuto, almeno in parte, al marketing.
A quei tempi la moda si rivolgeva a un pubblico sostanzialmente più vecchio, i Millennial erano ancora tutti in fasce e la Gen Z non esisteva: le collezioni di Tom Ford (come anche le sue campagne) erano letteralmente “per adulti”, raccontavano di un mondo fatto di architetture minimaliste, colori accesi e languori sensuali - un mondo in cui l'esclusività del lusso era comunicata attraverso l'elemento del proibito, dell'erotico. Anni luce di distanza dal decorativismo spumeggiante di Michele, i suoi dei greci, i suoi rituali pagani ma anche rivoluzionario in un'epoca in cui le campagne di moda stavano riscoprendo una nuova edginess (basti pensare alle campagne contemporanee di un brand come Versace).
Il lungo regno di Frida Giannini
L’epoca di Frida Giannini continuò sulla stessa traiettoria, ma con un progressivo allontamento dalla sexiness di Ford. Una mossa che funzionò all'inizio ma fece in seguito precipitare il brand verso l'anonimato. Giannini, come Michele, aveva iniziato disegnando gli accessori e le borse di Gucci – un tipo di heritage che venne riportato alla luce durante la sua tenure. L’estetica promossa dalla Giannini si rivolgeva allo stesso sofisticato jet-set di Tom Ford, seguendo i dettami di una moda conservatrice e un po’ reazionaria in cui il bello e il brutto erano nettamente divisi. In un’intervista di Fanpage.it di quest’anno, la Giannini ha detto:
Quello che non comprendo è sicuramente questa "estetica del brutto" che è nata e si è sviluppata negli scorsi anni che, mi dispiace dirlo, mi fa orrore. Essendo una donna io quando mi compro qualcosa voglio qualcosa che mi faccia sentire più cool, più magra, più bella, più giovane.
Inutile dire come questa opinione sia in aperta rottura con alcune delle ultime derive della moda odierna. L’estrema sofisticazione promossa dalla Giannini iniziava a sembrare obsolescente, così come il suo continuo ricorso all’archivio del brand aveva fatto perdere mordente alle sue collezioni – un dato che si tradusse in un calo delle vendite a partire dal 2013. Per anni Frida Giannini era stata una designer solida, che vendeva nonostante le critiche non sempre entusiaste e il suo periodo d’oro, tra il 2010 e il 2013, portò alla maison delle collezioni eccezionali ma negli ultimi anni della sua tenure non era più al passo coi tempi. Tom Ford vendeva perché faceva parlare di sé, il suo edonismo era specchio della sua epoca e quando Giannini abbassò l’aggressività sessuale dei design il cambiamento fu assai gradito – ma si trattò di uno storytelling che, nelle fasi finali dell'era di Giannini, andò via via perdendosi in discontinui richiami all’archivio: una collezione era anni ’60, un’altra anni ’20, un’altra ispirata all’epoca vittoriana, un’altra ancora all’Art Deco. L’identità si andava perdendo, le campagne erano sempre più generiche.
Ma non bisogna pensare che Frida Giannini abbia lasciato Gucci come lo ha trovato: fu lei a riesumare la borsa Jacqueline e la stampa Flora, lei ad avviare la stagione dell’impegno umanitario di Gucci e sempre lei a portare Florence Welch nella family del brand e creare le campagne con James Franco, Rihanna e Mark Ronson. Guardando le sue migliori collezioni ci sono molti elementi che Alessandro Michele avrebbe recuperato e reinventato. I problemi del brand erano dovuti anche al marketing dell’ex-CEO Patrizio di Marco, marito della Giannini, che aveva voluto diminuire l’impiego dei loghi sui prodotti e alzare il prezzo delle borse per riconquistare una clientela più high-end dopo che per anni erano state creati prodotti più a basso prezzo per allargare la base di consumatori ma facendo conseguentemente perdere al brand la propria aura di esclusività.
La rivoluzione di Alessandro Michele
Infine, nel 2015 ci fu il coup d'état di François-Henri Pinault, uno dei rari Red Wedding della moda – Patrizio di Marco e Frida Giannini vennero licenziati in tronco e il nuovo CEO, Marco Bizzarri, scelse l’allora sconosciuto Alessandro Michele che ebbe meno di una settimana per mettere insieme la collezione FW15 di Gucci.
Fece tabula rasa di tutto ciò che la Giannini aveva già disegnato, persino dei casting e dell'assegnazione dei posti in sala e in pochi giorni assemblò una collezione che già possedeva, in nuce, quel mood eclettico, gender-fluid e ispirato al vintage che tutti conosciamo. Il 19 gennaio 2015 il pubblico rimase di stucco: un modello efebico, pallido, con lunghi capelli biondo cenere avanzò sulla passerella in un’ampia camicia rossa, al suo collo un nodo tipico delle bluse femminili, il pussy bow. In quel momento una nuova epoca era iniziata.