La vera Milano Fashion Week non ha nulla a che fare con le sfilate
Un resoconto nostalgico di ciò che rendeva la Fashion Week imperdibile (e detestabile)
24 Settembre 2020
C'era un tempo in cui pronunciare tre semplici parole, Milano Fashion Week, evocava scenari familiari, affascinanti, a tratti isterici e anche per questo irrinunciabili: i modelli in metropolitana, le auto a noleggio a formare lunghe code fuori dai ristoranti e dai locali, il deserto dei taxi alla fine di una serata, l'assoluta necessità di mettere insieme l'outfit più eccentrico possibile con i capi che si hanno nell'armadio, per essere sicuri di entrare al party più esclusivo della settimana. Nonostante tutti gli sforzi, quella che ci apprestiamo a vivere non ha nulla della tradizionale Fashion Week.
Vivere la Settimana della Moda a Milano non ha (quasi) nulla a che fare con l’andare effettivamente alle sfilate, come direbbe qualcuno, è uno state of mind, è un’atmosfera, un clima elettrico che si respira per le strade della città quattro volte l’anno. L’arrivo della Moda con la M maiuscola a Milano era evidente prima di tutto sui vagoni della metro e del tram, improvvisamente popolati da stangoni e stangone altissimi e secchissimi, tutti con AirPods, book in mano e una vaga aria annoiata dipinta sul volto. Come piccoli sciami si muovevano in lungo e in largo per la città, rimbalzando da un casting all’altro, da un fitting ad uno shooting. Dell’arrivo del popolo della moda te ne accorgevi anche solo camminando per strada, dove il contrasto tra semplici completi per l’ufficio e cappotti logati Gucci non poteva passare inosservato.
Dopo la guerra degli inviti su Instagram - vince chi ne ha ricevuti di più - avevano finalmente inizio le sfilate. Il giorno dello show era ed è la dimensione del circo mediatico, e la sua capacità di bloccare il traffico, a segnalare l’importanza di un evento. Il clacson dei tassisti, le ore al telefono con il centralino pregando di trovare un taxi, gli sbuffi, le lamentele, le interviste agli automobilisti sulle TV generaliste erano il modo più semplice e frequente per raccontare un evento come la FW al grande pubblico. Un esercito di fotografi di street style, armati fino ai denti con obiettivi e flash, si schierava in fazioni non belligeranti per riuscire a fotografare celebrities e influencer da ogni angolazione. La corsa allo scatto perfetto comincia nel momento in cui la star mette piede giù dal van, e continua, a perdifiato, finché la stessa non è entrata nella location della sfilata. Più che editor, PR e addetti ai lavori, sono i fotografi i principali testimoni dell’evoluzione del più richiesto ospite da front row: se un tempo erano le grandi star hollywoodiane a dominare, poi scalzate da influencer di varia fama, oggi a bloccare la città sono star di TikTok e nomi del K-Pop.
Tra le tante ossessioni della moda, nella mitologia della Fashion Week il van ha assunto un’aura quasi sacra. Non c’è forse status symbol maggiore che uscire da uno show a testa alta e salire su un van nero dai vetri oscurati. Nelle centinaia di ore di video YouTube, di vlog e IG Stories non c’è influencer che non abbia colto occasione per mostrare il vero behind the scenes della FW, che nella maggior parte dei casi significa mostrare il rocambolesco cambio d’abito tra una sfilata e l’altra, sperando di non fare troppo tardi allo show successivo. All’interno di quei van abbiamo scoperto che smoothie preferiscono i nostri blogger preferiti, come fanno a restare al caldo anche quando fuori si gela - con i capi Heattech di Uniqlo, spoiler -, Kendall Jenner si è mostrata persino intenta a farsi i peli delle gambe con un rasoio.
La più grande mancanza con cui addetti ai lavori e comuni mortali fanno i conti da marzo è quella degli eventini, e non solo come occasione per rimorchiare. Un’assenza che si sentirà in modo ancora più importante durante la FW, la settimana per eccellenza in cui si esce di casa per andare in ufficio senza sapere a che ora, e in che condizioni, si farà ritorno. La selva di eventi, aperitivi, presentazioni in-store permetteva, con grande leggerezza e casualità, di organizzare o ribaltare la serata in pochi minuti, facendoci ricordare del motivo per cui vale la pena abitare a Milano. Più di tutto erano gli after party organizzati dai brand a mettere d'accordo intere chat di amici in panico sul da farsi. Passato l'entusiasmo iniziale ci si preparava psicologicamente alla prospettiva di lunghe code ovunque, per entrare, al guardaroba, al bar, al bagno; ai free drink annaquati; all'incontro con personaggi indesiderati; alle gomitate in pista; all'immancabile kebab prima di andare a dormire. Allo stesso tempo quella stessa prospettiva alimentava la possibilità di mostrarsi nel proprio outfit migliore, di conoscere gente nuova, e del giro, o di rivedere finalmente qualcuno incontrato durante la scorsa FW con cui dividere un taxi per tornare a casa. Altri rituali di convivialità a cui non siamo più abituati - uscire a fumare una sigaretta in cortile o in antri angusti, aspettare l’ingresso in un locale o ad un party - generavano spontanee conversazioni, l’invito ad un’altra festa, la scoperta di un after party, un programma inaspettato per il giorno successivo.
Non può che essere una certa nostalgia il sentimento dominante nel ricordare le Fashion Week che furono, simbolo di una quotidianità ormai scomparsa. Non possiamo però nascondere una verità innegabile: quando ci stavamo in mezzo, quando la vivevamo davvero, quella FW la odiavamo. Abbiamo maledetto i tassisti e discusso con i buttafuori, abbiamo rinunciato a una fetta della nostra dignità per scrivere al PR che avevamo giurato di non sentire più solo per entrare ad una festa, ci siamo uccise i piedi con quegli stivali nuovi camminando da un evento all'altro, abbiamo perso ore ed ore di sonno prezioso. Ma era tutta questa FOMO a tenerci svegli. Oggi, che la FW la viviamo dal divano di casa, in tuta, seguendo la sfilata di Armani in diretta su La7, abbiamo solo voglia di noleggiare un van per accompagnarci al supermercato, per ricordarci cosa si prova.