Che cos'è il greenwashing?
Un post di Noah NYC è lo spunto ideale per rilanciare il tema della sostenibilità e dell'ipocrisia intorno ad essa
21 Aprile 2021
Nel 2019 quello della sostenibilità è diventato un tema caldissimo, che ha alimentato ovunque il dibattito pubblico, e specialmente nel mondo della moda. Moltissimi brand, dal fast fashion al luxury, sono dunque corsi ai ripari, avviando iniziative benefiche, firmando accordi e pubblicizzando prodotti eco-friendly creati con materiali di recupero. Tutte misure che hanno in realtà fatto poco per l’effettiva risoluzione dei problemi dell’inquinamento e un cambiamento radicale e sistemico dell’industria. Noah NYC, invece, ha puntato alla discrezione, rilasciando negli scorsi giorni uno statement in cui dichiarava di non essere nemmeno vicina a raggiungere i mark-up della sostenibilità elencando i propri sforzi per diventare un'azienda responsabile. Qui il testo completo:
“Nonostante i nostri continui sforzi di esplorare e usare sempre più materiali riciclati, rinnovabili ed eco-friendly nei nostri prodotti e packaging, Noah non è ancora un brand sostenibile. Non ci siamo nemmeno vicini.Però, stiamo lavorando al massimo per diventare un’azienda responsabile. Produciamo i nostri prodotti in fabbriche e paesi che rispettano i lavoratori. Concentrandoci sulla qualità e incoraggiando i nostri clienti a informarsi su ciò che acquistano, speriamo di ridurre man mano il consumismo rampante [...]. Continueremo anche a raccogliere e donare fondi per altre cause importanti, dai diritti umani alle calamità naturali, e a informarne la nostra community”.
Questo statement è significativo perché spesso la volontà di proclamarsi consapevoli e attenti alla questione della sostenibilità ha spinto alcuni brand a pubblicizzare come sostenibili o rivoluzionarie iniziative che poco o nulla incidevano sulla propria impronta ecologica generale: è proprio in questi casi che si parla di greenwashing. A peggiorare la situazione, c’è il problema di informazioni che circonda la questione, spesso viziata da dati tanto falsi da essere diventati leggende urbane. La diceria secondo cui l’industria della moda sarebbe la seconda più inquinante, riguarda ad esempio un report relativo alla sola provincia cinese di Jiangsu pubblicato anni fa, ma deformato e ripetuto senza fondamento dai media di tutto il mondo.
Un caso esemplare è quello della viscosa, il terzo tessuto più usato al mondo, prodotto dalla cellulosa degli alberi e spesso pubblicizzato come alternativa sostenibile alle fibre sintetiche per abiti e collezioni venduti come eco-friendly. Fu un report del 2017 della Changing Market Foundation a scoprire che, anche se la viscosa è effettivamente organica, le industrie che la producono in Sud Asia inquinavano comunque riversando acque di scarico in laghi e fiumi. La notizia spinse molte aziende a proclamare nuove iniziative volte a migliorare la tracciabilità dei materiali. Nel report del 2019, però, si legge che, su 91 brand internazionali, 27 non possiedono alcun tipo di policy per quanto riguarda la tracciabilità di questo materiale e fra i brand “bocciati” figurano anche grandi nomi della moda come Dior, Armani, Prada, Versace e Dolce & Gabbana. Paradossalmente, H&M è risultato molto più trasparente per quanto riguarda la tracciabilità dei propri fornitori pur rimanendo una delle aziende più inquinanti.
La questione però non riguarda solo la tracciabilità dei materiali ma investe tutti gli stadi della produzione. La proporzione del problema della sostenibilità riguarda l’integralità del sistema-moda e non suoi specifici aspetti. A questo proposito un altro report del Boston Consulting Group mostra come, per fare un passo verso la sostenibilità entro il 2030, all’industria della moda servirebbe spendere dai 20 ai 30 miliardi ogni anno nello sviluppo di soluzioni efficaci e nell’implementazione di nuovi modelli di business. Una cifra enorme ma non proibitiva per un mercato da 2 trilioni di dollari. Rachel Cernansky scrive su Vogue Business:
“L’interesse degli investitori è stato inferiore nei confronti di soluzioni ‘tecniche’ che potrebbero ad esempio aiutare i brand a usare meno acqua nei processi di produzione”.
Dunque anche se molti brand compiono degli sforzi concreti verso la sostenibilità, questi non saranno mai sufficienti da soli.
Nel report del Boston Consulting Group si legge:
“A un certo punto, l’effetto ottenuto dall’adozione di soluzioni esistenti scenderà di livello. Da quel punto in avanti, per mantenere lo slancio e far scattare la trasformazione verso pratiche più responsabili serviranno nuove tecnologie e soluzioni che trasformeranno i modelli di business tradizionali”.
Viene portata come esempio la questione della fase finale della vita dei prodotti. Anche se c’è un aumento di consapevolezza nei confronti del riciclo degli abiti e della circolarità dei materiali, ciò che servirebbe all’industria è un’infrastruttura specifica per la raccolta e riciclaggio dei capi e per la produzione di fibre tessili dai materiali recuperati. Ma questa ipotetica infrastruttura avrà bisogno di “significativi investimenti e supporto prima che possa essere impiegata come una soluzione di massa per il mercato”, si legge nel medesimo report.
Nonostante altri settori (come quello energetico, dei trasporti e della produzione alimentare) abbiano iniziato a investire nell’energia pulita, nei veicoli elettrici e in soluzioni per l’agricolutura, questo interesse non ha ancora preso piede nell’attuale industria della moda. Le innovazioni dette a basso impatto sono infatti facili da implementare, ma quelle ad alto impatto o “hard-tech”, ossia quelle che richiedono soluzioni del tutto nuove, possiedono cicli di ricerca, sviluppo e implementazione molto più lunghi e complicati e gli investimenti che sarebbero necessari eccedono le capacità dei singoli brand. Una via d’uscita potrebbe essere quella delle collaborazioni: come quella fra adidas, Stella McCartney e la startup Evrnu per produrre una capsule al 100% sostenibile. Ma fino a quando grandi investimenti e concrete soluzioni non saranno disponibili, la strada migliore sarà quella dell’onestà. Meglio un’azienda che si sforza per essere responsabile, di una che proclama falsamente di essere sostenibile.