L’era di Kim Jones
Dietro l’estetica del designer che ha portato Dior nell’era digitale
06 Dicembre 2019
La sfilata Pre-Fall 2020 di Dior a Miami è stata un trionfo per la maison francese, ma ancora più grande per Kim Jones, Direttore Creativo della linea Menswear. Quando Jones è arrivato da Dior, dopo sette anni passati a capo della linea maschile di Louis Vuitton, ha lanciato l’identità del brand verso nuove direzioni, dopo i dieci anni di direzione artistica di Kris Van Assche. Lo stilista belga e Hedi Slimane prima di lui avevano traghettato Dior negli anni 2000, un mondo (e un mercato) molto diverso da quello di oggi, influenzato da riferimenti artistici e culturali differenti. Se già Kris Van Assche aveva avuto il merito di inserire elementi di streetwear nelle collezioni della maison, mantenendo giovane la sua estetica (fu durante la sua reggenza che A$ap Rocky e Rami Malek divennero i volti di Dior Homme), l’enfasi che poneva sulla sartorialità impediva a Dior di sfondare veramente nel mondo pop.
Per la sfilata SS19 di Parigi - il suo debutto al comando della maison - una statua di Christian Dior alta trenta metri e realizzata da Kaws troneggiava al centro della passerella. In questo tributo al leggendario coutourier sta tutta la poetica di Jones: reinterpretare il passato celebrandolo attraverso le opere di uno dei più innovativi artisti contemporanei. Il motivo di questo omaggio? Christian Dior era un collezionista d’arte e amico dei più grandi artisti della propria epoca, pittori innovativi, celebrati nei musei all’epoca come ora lo sono Kaws, Raymond Pettibon e Daniel Arsham. Jones stesso ha dichiarato:
“[Christian Dior] era un gallerista che ha lavorato con Picasso, Salvador Dalì, Max Ernst e molti altri artisti che erano famosi da vivi. Ho voluto fare la stessa cosa per la generazione digitale”.
Jones ha riportato in casa Dior la simbiosi con l’arte, collaborando con differenti artisti come Kaws, Hajime Sorayama, Raymond Pettibon e Shawn Stussy. Questo tipo di operazione non è solo l’esempio perfetto dell’operazione di “restauro” operata sull’identità Dior, ma riflette anche l’attitudine di Jones verso le collaborazioni.
La collaborazione non solo con artisti ma con designer esterni alla propria maison di appartenenza è stato uno dei tratti distintivi della tenure di Kim Jones da Dior, ed ha come esempio più limpido la Saddle Bag. La borsa femminile creata da John Galliano ai tempi della sua direzione artistica prendendo ispirazione dalle borse dei cowboy, è stata reinterpretata da Jones per il guardaroba maschile, rendendola più “virile” tramite l’uso della cinghia metallica disegnata e usata da Matthew Williams per i capi di Alyx Studio. Questo elemento di design “incorporato” all’interno del guardaroba Dior non è risultato alieno, anzi ne ha solo definito meglio l’identità gettando un riflettore sul lavoro di un nuovo designer e confermandone il valore e lo status artistico.
Ogni collaborazione realizzata da Dior nelle ultime stagioni può definirsi simmetrica, in quanto accresce il valore del brand più grande, che “accoglie” un dettaglio e riconosce il valore del brand più piccolo, dandogli nel contempo visibilità. Lo stesso si potrebbe dire per i lavori del modista Stephen Jones e della designer Yoon Ahn, founder di Ambush e creatrice dei gioielli della maison, oppure della recente collabo con Rimowa. Le collaborazioni non dialogano quindi più solo in modo orizzontale, facendo dialogare i creativi, ma anche verticale, creando un contatto tra mondi lontani. Dopo tutto è stato proprio Jones la mente dietro la collabo più iconica del decennio, Louis Vuitton x Supreme.
Prima ancora di entrare da Dior, Jones aveva portato il suo concetto di streetwear di lusso da Louis Vuitton. Durante i suoi sette anni passati a dirigere il brand, Jones introdusse nella proposta della maison tessuti tech presi dal mondo dello sportswear, sneaker, t-shirt con grafiche e tute. Prima di allora Marc Jacobs aveva collaborato con Takashi Murakami e Stephen Sprouse e persino disegnato una sneaker insieme a Kanye West ma, prima dell’arrivo di Jones, Louis Vuitton era ancora un brand tradizionale, i cui settori forti in fatto di menswear erano ancora pelletteria e completi sartoriali. Fu Jones il responsabile di quello shift graduale, poi consacrato con la collaborazione insieme a Supreme, che ha preparato il terreno all’arrivo di Virgil Abloh. Grazie a Jones lo streetwear è arrivato anche da Dior. L’esempio più lampante è di sicuro la collaborazione con Air Jordan, la più prestigiosa del 2019, ma la sensibilità street di Jones è entrata in modo molto vistoso nel DNA di Dior dopo il suo arrivo.
“L’abito sartoriale è la pietra angolare di Dior. Non volendo scombussolare i nostri clienti più leali, abbiamo deciso di lavorare sui tagli esistenti, modificando solo lunghezze e spalle. Per i nuovi clienti, ho aggiunto abiti 'da tempo libero' che sono più casual e ho lavorato a una nuova linea Oblique”.
Anche la scelta di riportare in auge per gli accessori maschili il motivo Oblique, recuperato nelle collezioni donna da Maria Grazia Chiuri nella FW18, è un omaggio al patrimonio della maison. Il motivo jacquard risale al 1967 e fu disegnato dall’allora direttore creativo Marc Bohan e brevemente resuscitato da Galliano nel 2000 per la sua Saddle Bag. Per quanto le creazioni di Jones siano innovative, insomma, si muovono sempre all’interno della grande e ricchissima storia di casa Dior.
Se volete sapere di più sull’ultima sfilata di Dior, nss magazine ha dedicato un articolo completo allo show, alle sue ispirazioni, e uno sguardo più approfondito sul più recente creativo con cui ha collaborato, Shawn Stussy. Se invece volete approfondire la storia dietro la Dior x Air Jordan 1, Dior ha da poco pubblicato un video in cui il guru delle sneaker Sean Wotherspoon discute la storia e le ispirazioni che hanno portato alla creazione della scarpa.