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Shawn Stussy: l'uomo che inventò lo streetwear

Dai primi surf decorati fino alla collaborazione con Dior

Shawn Stussy: l'uomo che inventò lo streetwear Dai primi surf decorati fino alla collaborazione con Dior

«Vestivo Stussy dalla testa ai piedi tutti i giorni quando ero un teenager. Era qualcosa da cui ero davvero, davvero ossessionato». Sono parole che qualunque teenager dei primi anni ‘90 potrebbe aver pronunciato, e che da sole restituirebbero il peso dell’influenza di Stussy sulla sottocultura di quegli anni che ha formato l’estetica di ciò che oggi chiamiamo streetwear - di cui fu proprio Shawn Stussy, il fondatore dell’omonimo brand, a coniare la definizione per la prima volta.

Queste stesse affermazioni sono però ancora più rilevanti se pronunciate da Kim Jones, direttore creativo di Dior, tra i più potenti e influenti fashion designer della storia recente della moda, specialmente in un periodo in cui lo streetwear ha cominciato a entrare nella narrativa dell’alta moda. Jones ne ha parlato, in particolare, nell'intervista con WWD in cui confermava ufficialmente la chiacchierata collaborazione con Shawn Stussy, 26 anni dopo il suo ritiro dalle scene. Oltre che per il suo valore artistico, l’iconicità della collabo sta senz’altro nelle figure che vede coinvolte: da una parte c’è Jones, dall’altra uno degli OG del mondo dello streetwear, che ha rivoluzionato il modo di vestire di una intera generazione di americani, inventando uno stile che prima, semplicemente, non esisteva. 

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La storia di Stussy inizia a Laguna Beach, in California, nei primi anni ‘80, come brand da surf. Era questa la prima passione di Shawn, nato nel 1954 e immerso nella cultura dei surfer californiani degli anni ‘50. La produzione iniziale era costituita soprattutto da tavole da surf, su cui Stussy incideva il suo nome. La conversione all’abbigliamento arriva - come spesso accade in ogni storia americana che si ripete -  per caso:

«È successo tutto a una fiera, nel 1981-82. Facevo ancora tavole da surf nel 1980, ci scarabocchiavo il nome Stussy. [...] Allora, mi dico, ‘Stampiamo qualche maglietta” e ci ho stampato Stussy in bianco sopra. Rimasi lì per tre giorni e vendetti circa 24 tavole.».

È solo nel 1984 che Shawn Stussy entra in contatto con Frank Sinatra Jr. (disclaimer: non c’è nessuna parentela con quel Sinatra) per creare una linea di abbigliamento. L’ispirazione proviene dal mondo del surf e dello skate, dallo stile dei giovani appartenenti a quelle subculture e, in particolare, dai cappelli bianchi da pittore che erano soliti indossare. Fu proprio quello infatti il primo capo iconico di Stussy, reinterpretato attraverso un logo composto da due linee che si intrecciavano, un riferimento all’ l’iconico logo di Chanel, rafforzato dalla caption “Stussy No. 4”. Da quel momento in poi parte la scalata di Stussy all’Olimpo di quello che diventa sempre più conosciuto come “streetwear”. Nel 1990 Stussy contava entrate per 17 milioni , e nel 1991 Shawn Stussy e James Jebbia decidono di aprire il primo negozio a New York City, in Prince Street. Secondo la leggenda, fu proprio il futuro fondatore di Supreme - che deve a Stussy più di qualche credito - a convincere Stussy ad aprire lo store, esperimento vincente che venne poco dopo replicato con l’apertura in di Stussy - Union. 

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In una lunga intervista per Acclaim nel 2013, Stussy parla in questi termini del suo rapporto con Jebbia:

«James è più un amico più che un socio in affari. Eravamo amici e abbiamo aperto il negozio insieme solo perché aveva Union NYC con Mary Ann Fusco ed erano davvero buoni clienti, hanno comprato la merce e l’hanno fatta fruttare a New York. Siamo diventati sempre più amici. Tornavo a casa dall'Europa dopo i miei viaggi, e andavamo a cena, e lui aveva capito esattamente quello che stavo cercando di dirvi di Stussy, il suo futuro».

Quando parla di viaggi in Europa, Shawn Stussy sta parlando di una delle più affascinanti e interessanti storie della street culture contemporanea quella della International Stüssy Tribe e del suo celebre varsity jacket. Originariamente concepito come un pezzo unico solo per i più fidati membri della Tribe durante i viaggi di Shawn in Europa - tra cui i guru del fashion e della cultura streetwear europee e mondiali come Alex Turnbull, Luca Benini, Jules Gayton o Hiroshi Fujiwara -, l’IST Jacket è da sempre considerato come uno dei grail più rari. Per il pubblico, invece, quello di Stussy era uno stile unico, impossibile da non riconoscere, come ha scritto Gary Warnett sul Journal di Mr Porter:

«Era raffigurato nelle campagne del brand, che apparivano nelle bibbie di stile della gioventù dell’epoca come The Face e Thrasher e includevano tutto, dai collage di Stussy alle fotografie in stile breakdance-incontra-Bruce Weber di David Dobson e Ron Leighton. Tutte quelle immagini erano accompagnate dagli slogan scarabocchiati dall’inconfondibile calligrafia di Stussy che era traballante e psichedelica e combinava a casaccio lettere maiuscole e minuscole, insieme a cancellature e abbellimenti energici e puramente decorativi.»

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Ma già nei primi anni ‘90, Shawn Stussy comincia a pensare di abbandonare la direzione creativa del brand, per ritirarsi a vita privata, passare del tempo con la sua famiglia e godersi il sole delle Hawaii:

«Ho avuto tutto quello che volevo, ma sono arrivate anche grosse responsabilità. E che senso ha avere tutto, se non puoi avere il tempo di godertelo?»

Gli anni immediatamente successivi all’uscita di Shawn dalla società sono i peggiori per Stussy, che si trova priva di quel fondatore che ne ha, passo dopo passo, coniato l’estetica. In quel momento, con Frank Sinatra Jr al comando, un team creativo nuovo di zecca e l’aiuto dei membri della Tribe in Europa e Giappone, Stussy trova la sua fortuna fuori dagli USA, riuscendo ad espandere l’idea di streetwear e di cultura skate all’estero, con il Giappone come principale mercato. Nel 2014, con 50 milioni di dollari di ricavi, Stussy poteva contare su uno spaccato di mercato di circa 60-40 verso l’estero. In più, ad aiutare il processo creativo, c’era lo smisurato archivio lasciato da Shawn Stussy

Un archivio nutrito della grande quantità di loghi, grafiche e lettering realizzati da Shawn Stussy durante i primi anni di attività del brand. Un lettering che poteva essere ritrovato nei dischi di Malcolm McLaren (una delle prime influenze di Shawn) o nei co-brand con Carhartt, assieme al quale Stussy contribuì a delineare una precisa estetica per il mondo hip-hop, fatto di un misto di outerwear e skate culture che per anni è stata il benchmark stilistico della Golden Age. Il modo in cui Shawn Stussy giocava con il suo logo sarebbe diventato un vero e proprio modus operandi per tantissimi designer dopo di lui, Virgil Abloh in testa. Alla fine degli anni ‘80, Stussy aveva ad esempio, realizzato una shirt decorata da un monogram chiaramente ispirato a Louis Vuitton.

«Sapevo che Shawn l’aveva fatto. Era alla fine degli anni ‘80, credo. Lo chiamavamo ‘Stu-ey Vuitton,’ e in realtà ci hanno fatto causa. Con tutte quelle variazioni sui loghi, abbiamo una lunga storia di lettere di ingiunzione», ha detto una volta Sinatra a BoF. 

Col tempo, l’utilizzo dell'iconico logo è diventato per Shawn Stussy anche uno dei motivi di attrito con il brand che aveva abbandonato. Nel novembre del 2015, il founder pubblicò un post Instagram in cui accusava l’azienda di aver utilizzato alcune vecchie tee da lui realizzate con Laura Roberts senza il suo consenso, o ancora durante l’intervista ad Acclaim si disse abbastanza stupito che, quasi vent’anni dopo il suo ritiro, il brand utilizzasse ancora tutta la sua creatività. 

Sono stati però proprio il lettering e la capacità di reinterpretare loghi a far sì che Kim Jones scegliesse proprio Shawn Stussy per quella che potrebbe diventare la più chiacchierata collaborazione dei prossimi anni. Nella prima sfilata americana di Dior a Miami - in occasione dell’Art Basel - il nuovo logo Dior disegnato da Stussy ha dominato la maggioranza dei capi. Un ritorno inaspettato - dopo la parentesi di Double/S, il brand con cui Shawn Stussy era tornato alle origini - per tempistiche e per modalità che, oltre a segnare nuovi orizzonti per la collaborazione tra moda e streetwear, marca il ritorno di una estetica che negli anni centrali nello sviluppo dello streetwear è stata «l’uniforme di una generazione».