Riuscirà Kanye West a riportare la produzione Yeezy in America?
Kanye dice di volerlo fare. Ma forse non è un obiettivo realistico.
22 Novembre 2019
Nella sua conversazione con l'host di Beats Radio 1, Zane Lowe, avvenuta alla vigilia della release di “Jesus is King”, Kanye West aveva rilasciato alcune delle dichiarazioni più conservatrici e allo stesso tempo progressiste mai rilasciate da un rapper. Kanye aveva infatti prima parlato di «riacquistare l’indipendenza alimentare» e poi annunciato di voler portare la produzione della sua Yeezy completamente negli USA, assumendo nelle fabbriche ex-detenuti afroamericani, ovvero la categoria di persone che storicamente ha più difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro dopo la detenzione.
Come spesso capita, Kanye ha aggiunto una quantità enorme di informazioni, alcune delle quali rilevanti ma passate in secondo piano di fronte all’enorme quantità di dati da elaborare. Già in quell'occasione infatti aveva parlato di «bisogno di lavorare per la ripresa del nostro pianeta e avere l’umiltà di capire che non potremo distruggere la Terra - possiamo distruggere le risorse e quindi distruggere noi stessi». In questo senso non può essere considerata una sorpresa la presentazione della nuova Yeezy Foam Runner avvenuta durante l’ultimo Fast Company's Innovation Festival: una silhouette realizzata con una schiuma a base di alghe e non di combustibili fossili tossici, subito etichettata dal pubblico di Twitter e Instagram come la "Yeezy Crocs". Kanye ha poi ribadito che «il nostro obiettivo nei prossimi due anni è riportare l’industria in America: Sud America e Nord America» e ha aggiunto di aver già spostato l’HQ di Yeezy nel suo ranch di Cody, in Wyoming.
Nelle elezioni presidenziali del 2016, in Wyoming Donald Trump aveva raccolto quasi il 70% dei voti; l’”Equality State” d’altronde è esattamente il tipo di stato americano in cui si è concentrata gran parte della base elettorale di Trump, dove è covato per anni il risentimento bianco che ha portato alla sua elezione. È difficile non ricondurre ogni espressione politico-economica di Kanye West a Trump e alle sue convinzioni. Nell’agosto del 2019, il POTUS aveva più volte annunciato la volontà e la quasi imposizione per le multinazionali USA di ritornare nel Paese: «Abbiamo le più grandi aziende del mondo. E stanno tornando tutte indietro. Stanno tornando negli Stati Uniti», provando a favorire il processo attraverso un massivo taglio alle tasse. Tuttavia l’idea che le grandi aziende americane possano tornare a casa è «irrealistica», secondo Bethany Aronhalt, portavoce della National Retail Federation - un gruppo lobbistico dell’industria del retail - che in una intervista a Buzzfeed News ha aggiunto: «I dettaglianti e gli altri importatori non potrebbero passare facilmente o rapidamente a fonti interne, perché non ne esistono sulla scala che sarebbe necessaria. Anche se ci fosse un eventuale passaggio all'approvvigionamento negli Stati Uniti, ci vorrebbero anni per costruire una base per sostenerlo». Anche nel caso di un'aperta guerra commerciale con la Cina infatti, l’opzione più percorribile per le aziende americane sarebbe spostarsi in Vietnam che già oggi è uno dei primi fornitori del retail americano.
La problematicità potrebbe interessare soprattutto il settore delle sneaker. Il 98% delle sneaker commercializzate su suolo americano, infatti, è importato dall’estero, soprattutto dal Vietnam, diventato il principale esportatore di scarpe verso gli Stati Uniti: ben il 44% dei volumi distribuiti negli USA arrivano dal Vietnam. I numeri dunque, non sembrano supportare l’idea di una possibile produzione domestica delle Yeezy: era stato lo stesso allora CEO di adidas Kasper Rorsted, nel 2017, ad etichettare l’ipotesi di un ritorno in US come «illogica e altamente improbabile». Lo è ancora di più all’indomani della chiusura dei progetti che avrebbero portato all’apertura di due speedfactory negli USA e in Europa. Gli speedfactory - dei centri di automazione che garantiscono una più veloce ed efficiente produzione di sneaker - verranno concentrati in Asia, «dove si trovano know-how e fornitori e dove adidas già produce il 90% della sua produzione» ha detto Rich Efrus, portavoce del brand, a Quartz.
Una situazione, questa, che accomuna anche l’altro principale player di settore, Nike, che nonostante rappresenti simbolicamente la quintessenza dell’aziendalismo americano, produce la maggior parte delle sue sneaker in Asia. La stessa Nike era stata tra le principali promotrici del TPP (il Trans Pacific Partnership) proposto dall’Amministrazione Obama nel 2015, che prometteva un consistente aumento delle assunzioni domestiche (circa 10 mila posti di lavoro nei 10 anni successivi direttamente collegati alla produzione e circa 40 mila assunzione indirette), nonostante fosse ovvio che l’accordo avrebbe favorito le esportazioni proprio verso quei paesi che garantiscono la quasi totalità della produzione di scarpe all’azienda di Beaverton.
Ma se non sembra economicamente possibile e sostenibile spostare la produzione delle Yeezy completamente negli USA, perché Kanye West avrebbe detto una cosa del genere? Bisogna considerare la volatilità d'idee di Kanye, la sua voglia di esternare ogni singola cosa gli passi per la testa, non importa quanto effettivamente realizzabile. Sui media americani, è paventata anche l’idea che la questione potesse essere in qualche modo riconducibile alla sua ipotesi di candidatura alle elezioni del 2024, da sempre paventata e confermata un’altra volta al Fast Company's Innovation Festival con un “kanyano”: «Quando sarò in corsa per la presidenza nel 2024, avremo creato così tanti lavori che non servirà correre: basterà camminare». Tuttavia il simbolismo dietro le parole di Kanye e alla volontà di «riportare posti di lavoro in America», assomiglia parecchio a quello della celebre frase «Republicans buys sneakers too» («anche i Repubblicani comprano le sneaker»). La frase è stata per anni attribuita a Michael Jordan, probabilmente pronunciata quando gli venne chiesto di supportare il candidato afroamericano democratico del North Carolina Harvey Gantt nella sua campagna per il Senato del 1990 contro Jesse Helms, accusato di essere razzista. Non è mai stato chiaro se Jordan avesse pronunciato o meno la frase, che è però stata utilizzata per anni per dimostrare il suo endemico allontanamento da qualsiasi schieramento politico e la volontà di non inimicarsi nessun tipo di pubblico.
Come ha scritto Michael Serazio sul Washington Post «a causa della massiccia e incontrollata espansione del potere societario - in termini non solo di quota di mercato, ma di condivisione mentale - i prodotti devono rappresentare valori, stili di vita e, nell'era del presidente Trump, ideologie politiche». Se riportare la produzione negli USA non è quindi oggi un obiettivo realmente perseguibile, l’utilizzo della retorica della produzione domestica serve come posizionamento dei brand nella percezione degli costumer di un prodotto di alta qualità e magari sostenibile. Vanno lette anche in quest’ottica le dichiarazioni di Kanye West di lavorare, per le Yeezy, a un prodotto più sostenibile e composto interamente da materiali riciclabili, dichiarazione accolta con qualche scetticismo da chi ne sottolinea la quasi fin troppo evidente discrasia tra supportare un Presidente che più o meno esplicitamente nega il cambiamento climatico e la volontà di produrre abbigliamento sostenibile.
Lo sneaker-game, d’altronde, è oggi un complesso gioco di equilibrio politico. Nel novembre del 2016 New Balance si ritrovò a fronteggiare diverse critiche dopo aver espressamente supportato la decisione di Trump di ritirarsi dal TPP: «L'amministrazione Obama non ci ha ascoltato e francamente sentiamo che con il Presidente Eletto Trump le cose andranno nella giusta direzione», aveva detto il brand al Wall Street Journal, tanto da portare il rapper e appassionato di new Balance Action Bronson a dire: «Donerò una quantità enorme di New Balance e Yeezy agli immigrati in difficoltà di New York». Addirittura sui siti di alt-right ed estrema destra americani cominciò a circolare la definizione delle New Balance come delle «vere sneaker dei bianchi americani». Anche Under Armour - che nel 2017 ha inaugurato la sua prima linea di apparel prodotta interamente nel centro di Baltimora - si è ritrovata a far i conti più volte con la politica, prima definendo, tramite il suo CEO Kevin Plank, il Presidente Usa «pro-business» e «una vera risorsa per il paese» e poi prendendone le distanze dopo l’attacco insensato di Trump alla città di Baltimora, vero cuore della produzione USA, proprio quella parte di America dove tutti pare vogliano riportare le loro industrie, per sottrarle al nemico giurato dell’economia americana, ma dove nessuno ha la forza di ritornare. Neanche Kanye West o Donald Trump.