In un bel pezzo pubblicato su GQ nel febbraio del 2018, Jake Wolf sottolinea l’enorme rilevanza della tecnologia Boost nel rilancio di adidas in termini di fatturato e soprattutto di branding, «così tanto che abbiamo cominciato a riferirci alla storia di adidas in termini di B.B. (Before Boost) e A.B. (After Boost)». Nel dettagliare la presa di posizione della tecnologia Boost all’interno dello sneaker-game, Wolf cita Kanye West e la sua passione per le Ultra Boost, indossate da Kanye in più occasioni, soprattutto nelll'iconica foto durante la performance ai Billboard Music Awards. Parte di quel rilancio, d’altronde, passa proprio dalle mani di Kanye e dalla fortunata intuizione delle Yeezy: confrontando i ricavi del brand del 2012 con quelli del 2015 (l’anno in cui le Yeezy, dopo esser state annunciate nel 2013, sono state rilasciate), Sole Collector ha notato un incremento di circa due miliardi di dollari, nonostante sia poi difficile - perché adidas non distribuisce i dati sui ricavi per linea - quantificare l’effettiva quota parte dell'"effetto Yeezy”. E’ però innegabile il successo dell’immaginario creato da Ye, pure quando lui e adidas hanno deciso di invertire un trend globale e smettere di puntare sulla scarsità per aumentare la produzione di Yeezy.
Un successo così solido da resistere anche a l'annus horribilis di Kanye, spesso al centro dell’attenzione per le sue uscite indelicate sulla schiavitù e per la vicinanza a Donald Trump. Mentre gran parte della comunità afroamericana si allontanava o restava scettica nei confronti di Ye, il fatto che le vendite e l’attenzione mediatica verso le Yeezy siano rimasti quasi invariati, offre un risultato forse controintuitivo, eppure molto esplicito circa la composizione etnica della base di acquisto delle Yeezy. In altri termini: ci sono tantissimi bianchi repubblicani che comprano Yeezy.
E’ pur vero, come sottolineato da Jawn Murray su Racked che «tante persone hanno dei problemi anche con Michael Jordan e il suo rapporto con la comunità nera», ma, esasperando il concetto, lo scollamento tra percezione di Kanye da parte della comunità afroamericana e il successo del suo brand permette di asserire che il peso di adidas all’interno della black community non sia poi così alto. Questo è particolarmente vero se si confronta il brand con le tre strisce con il suo competitor naturale, e cioè Nike, che ha fatto dell’attenzione a certe tematiche - quella della “race” (un termine con connotazioni leggermente diverse dal significato di razza) in primis - e della vicinanza culturale agli afroamericani un vero e proprio business; basti solo pensare all’ultimo volto aggiunto al roster degli ambassador Nike, e cioè Colin Kaepernick. Un esempio ancora più recente può aiutare a rendere le dimensioni della cosa: ogni febbraio si celebra negli Stati Uniti il Black History Month, che ogni anno - a partire dal 2005 - Nike ha omaggiato con un release pack appositamente realizzato. Quando adidas c’ha provato, lo scorso febbraio, il risultato è stato un backlash social per una scarpa in total white che ha costretto il brand tedesco a ritirare dal mercato la collezione.
Negli ultimi mesi però, adidas ha annunciato due importanti collaborazioni: prima quella con Donald Glover aka Childish Gambino, anticipata dal video di Feels Like Summer e poi materializzarsi prima al Coachella e poi in una serie di corti con protagonista lo stesso Gambino. La seconda è invece quella con Beyoncé, la regina del pop mondiale, che lavorerà come creative partner del brand, puntando soprattutto al rilancio di Ivy Park, la linea di abbigliamento sportivo lanciato da Bey qualche anno fa - quando diventò la prima donna nera a capo di un brand sportswear - e che non se la passa molto bene dopo le accuse di sfruttamento del lavoro e di molestie da parte del precedente direttore Philip Greene. Beyoncé e Gambino, che saranno peraltro entrambi protagonisti del prossimo live action Disney del Re Leone, sono due tra i più influenti artisti del panorama nero, due che hanno preso molto sul serio la missione di riscrivere l’idea stessa di black identity e far di tutto perché gli afroamericani si riapproprino della propria narrativa. Possiamo dunque interpretare l’interesse di adidas nei loro confronti come volontà di riprendersi la black culture? La strategia seguirebbe inoltre l’andamento del mercato demografico americano: come indicato da Nielsen nel report “Black Dollars Matter: The Sales Impact of Black Consumers”, «le scelte dei consumatori afroamericani hanno un “cool factor” che ha generato un effetto alone, influenzando non solo gli altri consumatori neri ma anche il mainstream». Andrew McCaskill, vicepreseidente di Nielsen ha poi aggiunto: «Con il 43% dei 75 milioni di millennials negli USA afroamericani, ispanici o asiatici, se un brand non ha una strategia multiculturale, non ha una strategia di crescita».
L’interesse dei brand di sportswear verso player non sportivi non è certo una novità, sia nel mercato moderno - dove l’esempio di come Rihanna abbia saputo rilanciare PUMA ha fatto per certi versi storia - sia da un punto di vista prettamente storico. Uno dei primi momenti culturali in senso lato che hanno visto coinvolto un brand di sportswear arriva nel 1986, quando i RUN DMC rilasciano My Adidas, un brano per suggellare la loro relazione con il brand, che nel frattempo - grazie anche alla commercializzazione delle tracksuit indossate dai RUN DMC - era diventato popolare tra i b-boys: «gli ho dato un milione di dollari, ma sono finiti col generare vendite per più di cento milioni nei successivi quattro anni», ha raccontato Angelo Anastasio, uno degli executive di adidas al tempo, nel libro di Barbara Smit Sneaker War.
Il successo pivotale nel mondo hip hop è riuscito a tenere a galla adidas nei primi anni ‘90, dopo che Michael Jordan e Nike si erano preparati a colonizzare una cultura e a modificare per sempre l’idea stessa di sneaker culture. Il livello di appeal raggiunto nella black community dalle Jordan è ben riassunto da Fa la cosa giusta, il film di Spike Lee del 1989, ma anche (e tristemente) dalla violenza che nei primi anni ‘90 ha circondato il mondo della sneaker, culminata nella morte del 15enne Michael Eugene Thomas, ucciso per le sue Jordan V. Parallelamente alla diffusione mediatica del rap è arrivata quella della NBA, che dopo il ciclone Jordan è diventato il principale veicolo della black culture, spesso fondendosi allo stesso rap, come Allen Iverson insegna. Nike ha creduto negli idoli sportivi afroamericani, e ci ha creduto anche negli scandali: subentrando ad adidas che aveva mollato Kobe Bryant dopo le accuse di stupro o sostenendo sempre e comunque Tiger Woods. Nell’era di LeBron James, la battaglia sembrava ormai persa, e i Derrick Rose e i James Harden di turno non sembravano poter avere un peso abbastanza rilevante da soppiantare Nike. E se, invece, quel ruolo potesse essere ricoperto dagli artisti?
Quando nel 2014 Mark King assunse il ruolo di presidente della divisione nordamericana del brand (un ruolo che ha ricoperto fino allo scorso anno, dopo che nel 2017 adidas è diventato il brand di sportswear con la più rapida crescita negli USA) esordì con una frase significativa «I grandi brand hanno bisogno di una grande cultura». La collaborazione tra Pharrell e adidas nella realizzazione delle Human Races ha, negli anni, invero suscitato qualche critica, di chi parlava di appropriazione culturale da parte del brand e di Williams, nel tentativo di sfruttare una cultura a loro non vicina. Nei casi di Beyoncé e Donald Glover, non c’è alcun rischio che tale critica possa esser mossa.
Il primo annuncio della partnership tra Glover e adidas è arrivato al termine del video di Feel Like Summer, un piccolo condensato di black culture contemporanea dai mille riferimenti - musicali, storici e politici - che avevano reso il video un instant classic e garantito al brand un certo posizionamento. Quel posizionamento è stato esplicitato ancora di più nel comunicato di presentazione, dove Glover ha parlato della ricchezza come “un concetto” dichiarando: «Con questo progetto volevo incoraggiare le persone a pensare a come le storie possono essere raccontate dalle loro scarpe. Il valore non è quantificato da quello che indossi, ma dalle esperienze che ne ricavi».
Per quanto retorico possa sembrare, il messaggio è stato perseguito prima durante lo stesso Coachella, quando Glover e adidas hanno regalato le scarpe in esclusiva ai partecipanti al festival, e poi nei corti di presentazione della collezione, interamente realizzati dai Royalty, il team di creativi (tutti afroamericani) che ha accompagnato Glover durante tutta la sua carriera. Non è dunque un caso se i brevi sketch ricordano da vicino i paradossi e l’essenza satirica di Atlanta, il dramedy che ha reso popolare Glover, attraverso il quale ha riscritto la black experience e si è guadagnato il rispetto culturale di cui gode oggi.
Sulla stessa linea, Erick Liedtke, membro del board adidas, ha detto della partnership con Beyoncé: «Beyoncé è una creator iconica, ma allo stesso tempo una comprovata business leader, e insieme, abbiamo l’abilità di ispirare il cambiamento e la presa di coscienza della prossima generazione di creator». La generazione a cui fa riferimento e mira Liedtke è certamente soprattutto femminile: nel corso della sua carriera Bey si è imposta come icona del nuovo femminismo nero, ispirato sia dai suoi brani che dal modo in cui si è radicalmente impossessata della narrativa dei Carters, una delle coppie più potenti del pianeta. Il ruolo di Bey come icona nera è passato - neanche a farlo apposta - ancora dal Coachella di qualche anno fa, da cui è scaturito Homecoming, il documentario presentato su Netflix che racconta i preparativi di una esibizione che intendeva omaggiare le HBCU, l’unione delle università indo-africane di cui fanno parte le più importanti università nere del paese. Durante il Coachella di quest’anno - dominato dunque da adidas - Bey ha messo in piedi un party per celebrare Homecoming, indossando dei pezzi della prossima linea Ivy Park x adidas customizzati dal designer del Bronx Jerome LaMaar insieme con Zerina Akers e Brea Stinson.
Come sottolineato da Matt Welty su Complex, dietro la decisione di adidas di puntare su Beyoncé potrebbe esserci anche la volontà di bilanciare le posizioni conservatrici di Kanye West in chiave politica. Le primarie dei democratici sono alle porte e le elezioni del 2020 più vicine di quanto sembri: avere in scuderia Beyoncé garantisce ad adidas un posizionamento liberal che arriva dalla sua amicizia con Obama, il suo supporto a Hillary Clinton e il recente endorsement a Beto O’Rourke. La polarizzazione della politica americana ha reso il terreno politico-culturale un campo sempre più minato, la campagna Nike-Kaepernick lo ha provato, così come i backlash social subiti dai brand di lusso accusati di razzismo: avere dalla tua parte Donald Glover e Beyoncé, oggi, vale più del loro volto ed engagement social, è il bigliettino la visita che la i brand vogliono, devono, avere per vincere la battaglia del posizionamento culturale. E se adidas voleva riprendersi la vicinanza alla black culture non poteva scegliere player migliori.
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