Benetton: United colors of fashion
La storia del marchio, dal primo maglione alle iconiche campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani
19 Febbraio 2019
Benetton sfilerà per la prima volta a Milano. Il marchio aprirà la Milano Fashion Week presentando la collezione maschile e femminile FW19 con uno show co-ed che si terrrà presso gli spazi di Area 56 in via Savona. L’evento sarà l’occasione per conoscere come l’heritage della storica azienda verrà interpretato e forse rivoluzionato dal nuovo direttore creativo Jean-Charles de Castelbajac. Approfittiamo dell’imminente evento per ripercorrere la storia di un’azienda che ha fatto la storia della moda italiana e non solo, anticipato i colossi del fast-fashion, rendendo il maglione un item trendy, scioccando e facendo riflettere con le campagne pubblicitarie realizzate con Oliviero Toscani.
La Storia
Tutto inizia nei primi anni ’50 come racconta Luciano Benetton:
“Mia sorella Giuliana confezionava maglie per un negozietto delle nostre parti. Un giorno, mi regala un maglione di un luminosissimo colore giallo. Beh, tutti lo volevano. Erano stanchi dei colori tristi e smorti dell’epoca. Allora ho detto: dai, proviamo, tu Giuliana crei e io vendo. Abbiamo comprato una vecchia macchina che faceva le righe alle calze a rete. La vendevano al peso del ferro. L’abbiamo trasformata. Da allora non ci ha più fermati nessuno.”
Il loro primo marchio ufficiale si chiama Très Jolie e diventa Benetton nel 1965, quando si uniscono al progetto anche gli altri due fratelli, Gilberto e Carlo, i quali si occupano rispettivamente degli aspetti finanziari e di quelli tecnici e produttivi. Poco dopo comparirà “folpetto”, il logo disegnato nel 1971 da Franco Giacometti e Giulio Cittato che contraddistinguerà i prodotti Benetton. Un piccolo polpo, che ricorda per l'intreccio anche una particolare trama di tessuto.
L’idea geniale che porta la famiglia al successo è semplice e, allo stesso tempo, innovativa: rimodernare il classico maglione di lana. All’epoca questo item era disponibile solamente in tinte base, ora si voleva elevarlo ad capo alla moda, proponendolo in 36 colori grazie allo sviluppo di una tecnica di tintura di capi pre-confezionati in lana non candeggiata, che permette di produrre molte varianti di prodotto in modo rapido, economico e su richiesta. L’impresa decolla in brevissimo tempo e, dal primo negozio aperto a Belluno nel 1966, il marchio si espande a macchia d’olio grazie a prezzi contenuti e ad un sistema di franchising basato su una rete indipendente di partner commerciali. Il successo di quella che ormai è la società quotata in borsa Benetton Group Spa sembra inarrestabile, così come le innovazioni e le idee vincenti. Tra queste, un sistema informativo capace di creare un collegamento diretto tra ordini, magazzino e distribuzione; una struttura delle collezioni snella, per accelerare i tempi di produzione e incrementare la crescita nella rete internazionale; la costruzione del primo magazzino completamente robotizzato già nel 1984. Tutte decisioni frutto di un’ottima intuizione imprenditoriale, ma il fattore X, l’elemento che permetterà al marchio di Treviso di entrare nella storia è la partnership con Oliviero Toscani. Sono le sue campagne di comunicazione ad alto impatto sociale con immagini scioccanti e provocatorie a far conoscere Benetton in tutto il mondo. È sempre il fotografo a sviluppare il famosissimo slogan “Tutti i colori del mondo”, poi “United Colors of Benetton”, frase che fa riferimento agli abiti colorati dell’azienda e contemporaneamente promuove un’idea positiva di diversità culturale.
Tutto cambia dal 2000, la comunicazione del brand passa a Fabrica e la concorrenza di colossi fast fashion come H&M e Zara prende il sopravvento sul mercato. Invece di continuare a focalizzarsi sul “progetto moda”, il gruppo dirigente inizia ad investire in altri settori: nelle autostrade, negli aeroporti, nelle grandi stazioni e negli autogrill. Nel 2003 la famiglia Benetton annuncia il ritiro progressivo dalla gestione diretta dell'azienda per lasciare spazio a manager esterni. Le perdite economiche aumentano, chiudono sempre più negozi e la reputazione del marchio viene intaccata da numerose accuse, di sfruttamento e violazione dei diritti umani, come la spinosa questione che oppone, nella Patagonia argentina, gli indigeni Mapuche al Gruppo Benetton, proprietario di 900.000 ettari acquisiti nel 1991. Secondo le accuse, il gruppo sarebbe colpevole di aver costretto gli autoctoni a dover sfollare dalle terre nelle quali hanno sempre vissuto. I numeri parlano chiaro: Inditex, nel 2016, fattura più di 23 miliardi di €, mentre Benetton solo 1,37 miliardi di €, nel 2017 registra una perdita pari a 216,2 milioni, che segue quella di 37,2 milioni realizzata nel 2016. Indignato per la situazione, l’ultraottantenne Luciano Benetton decide di tornare ai vertici dell’azienda e in un’intervista a La Repubblica spiega:
“Mentre gli altri ci imitavano, la United Colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli. I negozi, che erano pozzi di luce, sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. E parlo di Milano, Roma, Parigi… Abbiamo chiuso in Sudamerica e negli Usa...Hanno smesso di fabbricare i maglioni. È come se avessero tolto l’acqua a un acquedotto. Ho visto cappotti alla russa, con il doppiopetto, il bavero largo, le spalle grosse… di colore grigio sporco. Pensi che hanno chiuso le tin-to-rie”.
Insieme a lui torna anche il collaboratore storico Oliviero Toscani.
Benetton, Oliviero Toscani e la campagne pubblicitarie rivoluzionarie.
Una delle più grandi intuizioni di Benetton è stata capire che la comunicazione non si deve comprare da un fornitore esterno, ma nascere dal cuore dell’impresa. Dal 1982 al 2000, ad aiutare l’azienda veneta a sviluppare questo concetto è Oliviero Toscani. Insieme i due partner danno vita a pubblicità iconiche, unendo a immagini semplici, dirette e di impatto, una esplicita critica sociale. Talmente innovative da essere viste come uno spartiacque tra un modello commerciale di fotografia pubblicitaria tradizionale e quello moderno, in cui viene rovesciato il rapporto tra testo e sottotesto del messaggio. Le cause sociali diventano il perno delle campagne istituzionali, mentre prodotto, marca, merce sono ora il sottotesto. Toscani realizza immagini forti che, nati con lo scopo di catturare l’interesse e l’attenzione della gente impedendo l’indifferenza, scioccano, provano incidenti diplomatici, raccolgono critiche e querele dalla Vaticano alla Casa Bianca, venendo spesso censurate e boicottate. L’accusa più diffusa è quella di decontestualizzare e mercificare la cronaca e i problemi del mondo trasformandoli in una sorta di oggetti usa e getta. Qualunque sia l’opinione generale, è innegabile che le campagne di Benetton e Toscani abbiano segnato la nostra epoca e, anche grazie alle tante polemiche, abbiano permesso al gigante italiano della moda di farsi conoscere in tutto il mondo. I soggetti del fotografo sono pazienti affetti da AIDS, prigionieri politici, profughi, rappresentanti del clero, persone di qualunque razza, religione o orientamento sessuale.
Se le prime campagne puntano al sovvertimento degli stereotipi con l’intento di esaltare e allo stesso tempo unificare opposti e diversità sotto l’egida della marca, come lo scatto che mette insieme palestinesi e israeliani o quello, famosissimo, con una suora che bacia un prete sulla guancia, già dalla fine degli anni ’80 si fanno sempre più provocatorie, catturando l’interesse e toccando i vertici della polemica in tutto il mondo. È il caso della neonata Giusy, con il cordone ombelicale ancora da recidere, condannata dal Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria perché “non tiene conto della sensibilità del pubblico”; dei tre bambini, uno bianco, uno asiatico e uno nero, che mostrano la lingua dello stesso colore , giudicata “pornografica” e ritirata nei paesi arabi; dei due uomini, uno nero e uno bianco, ammanettati insieme; della donna nera che allatta un bimbo bianco, accusata di razzismo perché rievoca la vita degli schiavi di colore nei campi di cotone, quando tra i compiti affidati alle donne c’era anche quello di allattare i figli del padrone. Questa reinterpretazione delle Madonne con Bambino della storia dell’arte segna l’apertura della stagione di premi e riconoscimenti internazionali, diventando l’immagine più premiata nella storia della pubblicità Benetton.
Con il passare del tempo la collaborazione tra Toscani e l’azienda veneta tocca corde sempre più drammatiche e, per molti, scioccanti. Nel 1992, ad esempio, i due partner scelgono scatti realizzati da vari fotoreporter, consentendo alla realtà, alla malattia, alla violenza e alle catastrofi naturali di irrompe nell’universo spesso edulcorato e fittizio della pubblicità. Impossibile dimenticare il soldato nero, ripreso di schiena con un mitra sulle spalle, che impugna un femore umano; la nave carica centinaia di profughi; il cimitero di guerra pieno di croci; la sedia elettrica, chiarissima denuncia contro la pena di morte; i pantaloni e la maglietta insanguinati di Marinko Gagro, soldato ucciso durante il conflitto nell’ex-Yugoslavia.
La fotografia più toccante, quella che resterà nota come “la campagna pubblicitaria più controversa di sempre” raffigura David Kirby, attivista anti-Aids e malato terminale, ritratto come un Cristo morente, nel Maggio del 1990, mentre esala l’ultimo respiro nella sua stanza dell’Ohio State University Hospital, circondato dai suoi familiari.Il sodalizio creativo tra Oliviero Toscani e Benetton, iniziato nel 1992 si spezza nel 2000 poco dopo We On Death Row adv che mostra per la prima volta l’aspetto reale di alcuni condannati a morte. Per 18 anni il fotografo milanese si è occupato della pubblicità dell’azienda, sviluppando la sua presenza online, creando la linea sportswear Playlife, fondando nel 1990 il giornale Colors e nel 1993 l’innovativo centro studi internazionale Fabrica (sua la campagna Unhate). Toscani e Benetton sono stati un unicum, hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione trasformando la pubblicità in un mezzo per parlare dei problemi del mondo, di razzismo, sesso, religione, guerra, mafia, pena di morte, AIDS, violenza.
La crisi di idee.
Cosa è successo dopo la fine della collaborazione con Toscani? Il marchio si è seduto sugli allori. Ha smesso di sperimentare, provocare, investire. Sia sul piano dirigenziale sia su quello della comunicazione. L’azienda Benetton, dagli anni 2000 sempre meno nelle mani della famiglia che l’ha portata al successo e sempre più di manager estranei, si è crogiolata sui risultati ottenuti, come un gigante stanco e tracotante che resta fermo, immobile, sempre uguale a se stesso, senza accorgersi che quell’immagine un tempo dorata sta diventando sbiadita ogni giorno di più e che qualcuno si sta preparando a prendere il suo trono. Metaforicamente parlando, è quello che è accaduto al brand veneto, divorato in termini di incassi e di appeal da catene fast fashion come Zara o H&M, risultate, invece, capaci di stare al passo coi tempi, in termini di proposte creative e di comunicazione, sempre attente a ciò che il mercato attuale chiede. Se, gran parte della fortuna di Benetton si deve alla genialità dirompente di Toscani, come hanno fatto i suoi successori a non capire il valore di un’immagine d’impatto che, anche se scomoda, è in grado di suscitare reazioni forti, ritorno di immagine ed economico? Difficile pensare che possano bastare scatti con modelli multietnici vestiti con capi più o meno colorati per mantenere l’attenzione sul brand. Per essere onesti, dal nuovo millennio al ritorno di Toscani, un tentativo più interesse c’è stato: la campagna Unhate. Tema centrale del progetto è il bacio, il più riconosciuto simbolo dell’amore, qui simbolo di riconciliazione tra leader politici e religiosi mondiali, ad esempio: Barack Obama e il leader cinese Hu Jintao; papa Benedetto XVI e Ahmed Mohamed el-Tayeb, Imam della moschea di Al-Azhar al Cairo; il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Una campagna che ha valso all’azienda diversi premi, ricordando i tempi d’oro. Peccato che a causa delle proteste Benetton abbia deciso di ritirare alcuni scatti, come quello tra il papa e l’iman.
Lo avrebbe fatto all’apice del successo? Forse no. Ora che ai vertici è tornato Luciano Benetton, e con lui Toscani, le cose protrebbero cambiare. Si spera migliorino anche le offerte strettamente fashion e che il nuovo direttore creativo Jean-Charles de Castelbajac sappia infondere con la sua esperienza e il suo amore per l’arte un twist interessante alle nuove collezioni, magari aggiornando le creazioni con influenze street o con qualche collaborazione speciale, con un artista per esempio. Sarebbe bello se il destino di Benetton non fosse oramai un pallido ricordo del successo passato.