La più grande fake news sulla moda
Il New York Times smaschera una delle bufale sull'inquinamento provocato dall'industria della moda
20 Dicembre 2018
In un lungo articolo sul The New York Times, la giornalista americana Vanessa Friedman ha scritto di moda e del suo impatto ambientale, ma anche di chiederci quando siano affidabili i dati che vengono comunicati sull’argomento.
Forse qualcuno ricorda che in diversi siti e giornali, come l’autorevole The Guardian, è apparsa la notizia che il fashion è la seconda industria più inquinante al mondo. Perfettamente credibile, e ritagliata per fare click online. Peccato però che il dato non sia esatto.
In un 2018 in cui si è ampiamente discusso sul problema-fenomeno delle fake news, ora ne spunta un’altra, come spiega la giornalista che, tuttavia non difende l'industria per l'impegno sulla sostenibilità. Nell'articolo Friedman spiega che non esiste una fonte credibile e verificabile che attesti il giusto grado del danno ad essa imputabile e, quindi, nessun posto preciso da assegnare. Friedman porta come esempio un articolo sul lavoro eco-sostenibile della designer Eileen Fisher apparso sul sito OneGreenPlanet (che a sua volta cita un pezzo sul sito EcoWatch) in cui si legge che "il settore della moda da 3 trilioni di dollari è il secondo più inquinante, dietro al petrolio". Interrogati da The New York Times su quale sia l’origine di tale dato, ne la donna né il sito sanno dare una chiara risposta. Fisher ipotizza che l’ informazioni arrivi da The True Cost, un film del 2015 di Andrew Morgan, o dal Glasgow Caledonian Fair Fashion Center, mentre per latri bisogna risalire al Copenhagen Fashion Summit, una conferenza sulla moda sostenibile, iniziata nel 2008.
Continuando a scavare dopo una catena molto lunga di rimpalli sull’origine dell’affermazione incriminata, arriva a ottenere un risposta: c’è una mancanza di fatti affidabili per quantificare con precisione il ruolo, pur determinante, del settore moda (che potrebbe includere articoli per la casa e biancheria da letto o altre cose) nell’inquinamento ambientale. Allora perché per tutti è stato così facile credere a questa fake news? Basta continuare a leggere l’articolo per scoprire una possibile risposta: perché è plausibile e la moda, con tutti i pregiudizi che la contraddistinguono, rappresenta un perfetto colpevole. Poi, per essere sinceri, la moda non sarà al secondo posto tra le industrie più inquinanti, ma, probabilmente, rientra almeno tra i primi cinque. Alla fine dell’articolo Friedman ci offre dei dati reali sulle azione cattive del fashion world, rispettivamente presi da rapporti di McKinsey e Qantis e da un libro intitolato Manuale di bonifica degli effluenti tessili, pubblicato da Mohd Yusuf:
“-Quasi tre quinti di tutti gli indumenti finisce negli inceneritori o nelle discariche entro un anno dalla produzione.
-Oltre l'8 per cento delle emissioni globali di gas serra sono prodotte dalle industrie dell'abbigliamento e delle calzature.
-Inoltre, il 20-25% dei composti chimici prodotti a livello mondiale viene utilizzato nell'industria della finitura tessile.”
Accusare, seppur in maniera imprecisa, il settore dello stile di essere uno dei principali fautori dei problemi dell'ambiente, può avere anche un lato positivo, cioè spingere tutti coloro che ne fanno parte ad agire meglio ed in maniera più responsabile, come hanno lavorato e continuano a fare realtà eco-friendly come Patagonia che recentemente ha lanciato la campagna Save the Blue Heart per sensibilizzare l'opinione pubblica globale sulla portata e sull'impatto negativo a lungo termine sull'ambiente dei progetti idroelettrici sui fiumi selvaggi d'Europa o adidas che ha realizzato delle speciali sneakers o dei kit per squadre di calcio in collaborazione con l'organizzazione Parley che punta a ridurre l’uso della plastica vergine, recuperando le scorie plastiche dai mari e utilizzandole per scopi alternativi. Forse la moda non ha ancora trovato un modo veramente efficace e coinvolgente per migliorare il destino del nostro pianeta, ma, qualche piccolo passo viene fatto quotidianamente. Forse ancora troppo pochi.