Gorpcore: come ha fatto l'abbigliamento da montagna a diventare cool
The North Face > Balenciaga
10 Ottobre 2018
Winter is coming.
No, non stiamo parlando della prossima stagione di Game Of Thrones, ma di quello che indosseremo nei mesi più freddi dell’anno. Nell’eterna lotta tra il cappotto cammello bon ton un po’ da figlio di papà e giacconi voluminosi da omino Michelin, sembra che la vittoria stia andando proprio ai giubbotti imbottiti. È una tendenza che vediamo da circa un anno a questa parte, iniziata per le strade di mezzo mondo da quel pubblico della moda sempre attento e desideroso di distinguersi, e molto presto ripresa e reinterpretata sulle passerelle delle capitali della moda. Il mondo dell’alpinismo, dell’escursionismo e dell’hiking sono diventati, inaspettatamente, delle fonti d’ispirazioni inesauribili per designer e modaioli.
Ma facciamo un passo indietro. Lo scorso maggio il magazine newyorchese The Cut aveva coniato per questo trend l’espressione ‘gorpcore’, una sorta di estensione (invernale) del concetto di normcore. Se con quest’ultimo si tende ad indossare capi semplici, minimali, come T-shirt bianche e normali blue jeans, il gorpcore è un trionfo di giubbotti imbottiti, pile da montagna e tessuti veramente resistenti al freddo. Perché il punto è proprio questo: i capi sono sfacciatamente brutti, ma sono pratici, utili, servono al loro scopo, sono comodi e indossabili tutti i giorni. La loro estetica può essere definita utilitaristica e da sopravvivenza, la sostanza conta molto più della forma, la performance è da preferire alla bellezza. Sandali con calze, chiusure in velcro, marsupi, piumini oversize, impermeabili, pile, tessuti waterproof, dettagli considerati a lungo brutti, o comunque non degni di una passerella, fanno ormai stabilmente parte di collezioni di brand del calibro di Gucci e Givenchy.
Tutto ciò si ricollega al concetto di bruttezza, introdotto nel mondo della moda per la prima volta da Miuccia Prada, poi ripreso e rivendicato qualche anno fa dal designer georgiano Demna Gvasalia. “It’s ugly, that’s why we like it” (è brutto, per questo ci piace): Gvasalia spiega così l’inevitabile attrazione che si prova verso item oggettivamente brutti, come, appunto, piumini da montagna o scarpe da trekking (su questo torneremo più avanti). Ciò che rende questi capi cool è che non fanno nulla per esserlo. Gli item non devono essere belli, se sono cool lo sono accidentalmente, e il loro non essere cool è ciò che in ultima istanza li rende interessanti e desiderabili.
I fashion enthusiast sono i primi a portare il gorpcore per le strade, fonte d’ispirazione inesauribile per ogni designer. Quando si tratta di capi come questi, la performance conta sempre di più, la funzionalità è diventata imprescindibile, indi per cui influencer e blogger decidono di acquistare giacconi e pile non di Balenciaga o Kenzo, ma di The North Face e Patagonia (facendo un’eccezione solo per Prada Linea Rossa). La tendenza è quindi questa: investire (letteralmente, visti i prezzi) su capi realmente resistenti, pensati per durare nel tempo, la cui performance è sempre ai massimi livelli. The North Face si è fatto strada nei cuori di sneakerhead e hypebeast con le super instagrammabili collezioni in collaborazione con Supreme, restando poi saldamente al primo posto nella classifica dei brand invernali più amati, insieme a Stone Island e CP Company. Il sito di e-commerce ASOS riporta che c’è stato un aumento del 30% nella ricerca di The North Face sul sito, e del termine tech-fleece, il pile a collo alto, di solito con zip.
Patagonia, invece, per la sua storia e il suo spirito risponde anche ad un altro tipo di esigenza. Acquistare un capo duraturo, da usare negli anni, significa anche avere un minor impatto ambientale, soprattutto se gli item, come quelli di Patagonia, sono realizzati in materiali riciclati.
Non ci vuole molto prima che un trend dello streetstyle invada anche i fashion show dell’alta moda. Gvasalia è il primo a portare in passerella da Vetements enormi piumini oversized a collo alto, giacche antivento portate sopra strati di vestiti, o puffer jacket abbinate a pantaloni gessati, per poi replicare il tutto da Balenciaga. Il trend mountain chic viene interpretato anche da Acne Studios, ALYX, Marques Almeida, Givenchy, Kenzo, mentre Etudes crea delle vere e proprie cinture con corde da scalata, chiuse dai più classici moschettoni da montagna.
La designer inglese Martine Rose raggiunge poi lo step successivo, andando ad unire i due mondi del gorpcore. Non solo Rose ha creato una collezione in cui abbina Nike Air Spiridon a bike shorts e pile, ma è arrivata proprio a collaborare con un brand il cui DNA è strettamente connesso con la montagna, senza troppe pretese di risultare anche fashion, Napapijiri. Rose reinterpreta gli iconici giacconi del brand in maniera giovane e cool, rendendo gli item nuovi pezzi cult del mondo dello streetwear.
L’ispirazione hiking ha chiaramente investito anche il mondo delle sneaker. Il primo ad aver avuto questa intuizione era stato Raf Simons, che in collaborazione con adidas Originals aveva creato la Ozweego, una sneaker oggettivamente brutta, grossa, e, specialmente nella suola, ispirata alle scarpe che si usano per le passeggiate in montagna. I riferimenti al mondo dell’hiking sono proseguiti da adidas con la Pharell x adidas Originals NMD HuTrail, da Nike con la linea ACG, fino alla riscoperta di brand come Merrell e soprattutto Salomon. L’ultimo esempio in ordine di tempo di questo trend è la Balenciaga Track Shoe, una sneaker a metà fra una scarpa da corsa e una da trekking; in ogni caso, brutta.
Questo è solo l’ultimo trend che il fashion system ha rubato dal mondo dello sport, dopo atletica, basket e ciclismo, ora è il turno dell’alpinismo.