Browse all

Resignation anxiety? In Japan, start-ups give them for you

Young entrepreneurs' response to Karoshi, “death by overwork”

Resignation anxiety? In Japan, start-ups give them for you  Young entrepreneurs' response to Karoshi, “death by overwork”

Nella cultura giapponese, basata su un punitivo senso del dovere e del sacrificio con sfumature di attaccamento quasi simbiotiche, lasciare il proprio lavoro è complicato: molti lavoratori, esasperati dall’assioma di felicità strettamente connessa alla produzione e alle ore di straordinari svolte, si rivolgono ad agenzie di dimissioni che hanno lo scopo di aiutare, chi ne ha bisogno, a licenziarsi senza disagi o difficoltà. Nel tempo, si è fatto strada nella società giapponese il termine Karoshi, che significa “morte da superlavoro”: la parola è stata coniata negli anni ’70 per descrivere la piaga sociale dovuta all’esaurimento per troppo lavoro, causa di centinaia di decessi per malattie cardiovascolari e suicidi. Nel 2017 Toshiyuki Niino, traendo vantaggio dall’esperienza personale legata alla difficoltà rilevata nel dare le dimissioni, fonda insieme a Yuichiro Okazaki x, una start-up  che, con un contributo di 20.000 yen (circa 144 dollari), contatta il datore di lavoro del cliente informandolo della scelta di dimettersi, con un preavviso di due settimane. In questo modo, si gestisce l’imbarazzo e la pressione di affrontare il proprio capo in una cultura lavorativa autoritaria, fondata su un radicato senso di vergogna e di colpa nei confronti di chi decide di licenziarsi, soprattutto dopo meno di tre anni. 

@ilprofessore25 #perte suono originale - ilprofessore25

Non solo, il servizio assicura di dare riscontri onesti sul motivo reale che porta il lavoratore ad andarsene. In alcuni casi, afferma Niino in un’intervista all’emittente televisiva Al Jazeera, alcuni datori di lavoro aperti al confronto si rivelano grati di ricevere feedback costruttivi, mentre altri, ancorati all’idea che l’anzianità lavorativa sia direttamente proporzionale al valore della persona, ne fanno una questione etica e morale. Exit ha dato il via ad un fenomeno: ad oggi, in Giappone, operano più di cento agenzie di dimissioni. Evocativo il caso di Momuri, servizio di dimissioni per procura controllato dalla società Albatross, che si traduce con un esaustivo Non ce la faccio più. Si stima che il 60% degli utenti attivi sia composto da giovani tra i 20 e i 30 anni: i motivi che portano neo-laureati ad abbandonare il proprio lavoro comprendono una cattiva gestione delle risorse, regimi a tratti dittatoriali e maltrattamenti verbali.

Il successo delle agenzie di dimissioni, che in media ricevono circa 10.000 richieste l’anno, riflette l’impostazione di un sistema chiuso e soffocante, in cui la componente umana, del tutto legittima, non viene presa in considerazione. Lavorare fino allo sfinimento è considerato ammirevole, una prova di dedizione e di rispetto per se stessi e per i propri superiori: le conseguenze sono tanto subdole quanto devastanti. Un indicativo e conciso report di Gallup del 2021 State of the World’s Jobs ha rilevato che solo il 5% dei giapponesi è coinvolto e appassionato del proprio lavoro.  Realtà come Exit e Momuri funzionano da palliativo di un sistema socioculturale che si basa sulla paura delle ritorsioni, delle minacce e delle molestie sul luogo di lavoro, in un circolo vizioso che fa perno su ansia e frustrazione, che, come conferma il fondatore di Exit a fronte di un recente aumento spropositato delle richieste «non cambierà nei prossimi 100 anni». Ampliando il discorso al resto del mondo,  il filosofo coreano Byung-Chul Han  parla di «società della stanchezza». Secondo lo studioso, abbiamo internalizzato un modello imposto dall’esterno legato all’ossessione della prestazione, in un’escalation in cui autorealizzazione coincide con autodistruzione: fare di più, essere di più, avere di più. Quanto può essere sostenibile e lungimirante passare da essere soggetti attivi e coinvolti a diventare progetti da ottimizzare, rendere efficienti e far progredire?