«We will not show flowery dresses if bombs are dropped in the world» interview with HG / LF
Echoes from the underground
January 30th, 2024
Lorenzo e Letizia sono due designer molto giovani che tentano di farsi strada in un settore molto vecchio. Vederli muoversi nel loro atelier - che poi è anche la loro casa - è un po’ come guardare un animale selvatico farsi strada tra le macerie: un ambiente che ha il sapore di un rave finito da poco, tra ritratti di David Bowie e Patti Smith, pile di riviste e volantini che promuovono la lotta di classe. Sul muro principale, si estende un enorme paio d’ali dalle piume nere, tutt’intorno si muovono persone che dipingono magliette, intagliano lattine per farne accessori mentre qualche tatuatore venuto dall’estero approfitta della versatilità dell’open space per incontrare i clienti. Uno spazio claustrofobico e liberatorio, una dicotomia che riassume coerentemente l’essenza del brand: «L’immaginario raccontato sono covi pirati, quartieri liberati, Outsiders, le popolazioni native e nomadi, i comunardi di Parigi, i Diseredati e Dissidenti, le Occupazioni e tutte le storie di Movimento, tutto ciò che nasce e si riproduce al di fuori della realtà dominante, dell’oppressione e della noia» racconta Lorenzo mentre un levriero afgano con un maglione rosso gli strofina il muso sulle gambe e Letizia controlla il processo di stampa serigrafica di una t-shirt che sarà disponibile a breve nel loro prossimo drop.
Corsetti e guanti medici, maglieria destrutturata, denim sbiadito, rombi clowneschi e pattern di cancelli liberty fotografati per Milano stampati su giacche di pelle: l’eco di Berlino incontra la sartoria e l’eccellenza manifatturiera in un progetto che punta ad essere "non stagionale ma generazionale”: «Siamo consapevoli che lo stato attuale del mondo non necessita di sovrapproduzioni di vestiti. Il panorama è pieno di talenti in grado di produrre oggetti belli, di qualsiasi tipo; la società ha creato tantissimi individui in grado di elaborare cose da consumare, eliminando l’arte del pensare. Per questo motivo per noi è importante prima di tutto individuare una tematica, qualcosa di viscerale, un “messaggio vestito di capi“.» Se nella maggior parte dei casi i brand oggi nascono da un visione estetica, HG / LF nasce invece da un’ideologia e dall’esigenza di manifestarla, dall’urgenza di creare uno spazio, un linguaggio che connetta davvero gli individui attraverso i capi, un legame tangibile in un’epoca di frammentazione per cercare di fermare il tempo in collezioni dette eterne guidati dalla voglia di fare prodotti contro la logica di rimpiazzo.
Perché un brand? Volevamo comunicare. Nell’epoca dell’ossessione per l’immagine, in cui tutto viene mosso da essa, ci sembra che sia l’unica cosa in grado di colpire con immediatezza. I “costumi” sono solo un mezzo, un conduttore per trasmettere un’altra causa: per noi era importante “attivarsi”. HG / LF è un movimento artistico non etichettabile, è dibattito, è preoccupazione. Oggi, ironicamente, ci piace pensare che sia visto come una sigla di una multinazionale, così da sembrare un virus all’interno del sistema.
Mentre le grandi maison di moda prendono le distanze dalle principali cause sociali e politiche per paura che esporsi in merito possa minare profitti o finanziamenti e perché esse stesse fanno parte dei gruppi finanziari che alimentano i suddetti conflitti, i due designer emergenti hanno fondato a Milano una casabase di dissidenza, proprio quando ci eravamo convinti che non ci fosse più spazio per la controcultura. In questo microcosmo i capi sono parte integrante ma allo stesso tempo solo la rappresentazione più immediata di un mondo sommerso eppure aperto a tutti, a chiunque voglia scoprire lo showroom, sperimentare l’estetica dei capi in prima persona, in uno scambio fisico e personale che dilata i ritmi dell’esperienza d’acquisto tradizionale. È un’estetica e una metodologia che si fonda su riferimenti culturali disparati ma coerenti: «Partendo da Joseph Beuys, anche noi vorremo istituire una connessione diretta tra la pratica artistica e l’impegno sociale, materia messa in pratica da Vivienne Westwood, che ha usato i vestiti per commentare il sistema, esprimere resistenza e ispirare l’attivismo. Passando a Miguel Adrover, anche lui ossessionato dai commenti sulla cultura capitalistica.»
Lorenzo e Letizia ci raccontano le difficoltà di un brand del tutto indipendente all’interno di un sistemo fatto di preferenze (e finanziamenti) pilotati, di madrine e padrini e della fatica di chi, mosso dal desiderio di scardinare un sistema che ha già mostrato la sua fallibilità si ritrova comunque a muoversi al suo interno. Dopo aver presentato il loro secondo e ultimo lavoro in calendario alla Fashion Week di Milano con uno show nel fango che anticipava di un anno il The Mud Show di Balenciaga e la performance di Elena Velez, il problema principale che riscontrano è la risonanza mediatica. «Le situazioni che oggi vediamo nascere ed emergere in un anno sono brand studiati a tavolino da qualche personaggio del sistema o qualcuno già inserito. Vengono caricati di soldi, fanno credere alle persone che dietro ci sia qualcosa di nuovo, di diverso, almeno nello spirito. Ma non è così, sono solo operazioni di capitale. Non è moda, non è movimento, non è cambiamento, non è generazionale. I costi di produzione che sosteniamo per il campionario e produzione ordini sono altissimi rispetto ai grandi marchi: i fornitori non hanno interesse a supportare nuove realtà, se non al cospetto di quantità o cifre altissime. Inoltre, non sono disponibili a modificare il proprio assetto a seconda delle necessità del tempo che stiamo vivendo, scoraggiando i creativi a produrre alternative ad una proposta dominante» spiega Letizia. «Poi ovviamente c’è la comunicazione delle collezioni attraverso campagne costosissime che non possiamo permetterci e in seguito, la promozione di queste attraverso più canali, con dei budget che addirittura superano quelli dell’ideazione dei capi stessi. Generalmente, il settore si dimentica della realtà che vive la nostra generazione, una realtà sicuramente più scura, caotica e sporca di quella che siamo abituati a vedere sulle passerelle» aggiunge Lorenzo.
A breve, dopo un periodo di incubazione, faranno uscire una capsule di vestiti completamente recuperati dai propri armadi - vecchie t-shirt tagliate, verniciate e arrugginite - creando pezzi unici dai vestiti dei nonni, con oggetti presi dai cassonetti, medaglie, bottoni, rifiuti. Un’estetica riciclata a partire da elementi poveri, di recupero, assemblati a mano per dargli nuova vita. «Questa capsule accompagna l’uscita del nostro manifesto, una presa di posizione necessaria contro l’odio, la guerra, l’oppressione e il colonialismo. un manifesto universale di pace, un faro sulla condizione attuale della nostra civiltà in declino. La fine del matrimonio tra democrazia e capitalismo. Per citare Adrover: non mostreremo abiti a fiori se nel mondo lanciano bombe.»