Per descrivere i cambiamenti, le evoluzioni e il futuro dell’industria della moda, è uso comune ricorrere a termini intrinsecamente legati al concetto di tempo, sostantivi che delimitano un periodo storico ben preciso, in cui individuare ascese e cadute, nuove abitudini e vecchie tendenze, inediti trend e future passioni. Sebbene nella realtà quei confini temporali non siano sempre così netti, è ragionevole parlare della nascita di un trend, del suo declino, e infine del suo esaurimento.
Lo streetwear è una comunità, un gruppo di amici che condividono un legame. Ma lo “streetwear” è un’altra cosa. Lo “streetwear” è urlare ai commessi nei negozi, iniziare risse durante le line-up e diffamarci perché non abbiamo fatto abbastanza paia di scarpe e non tutti possono averle. […] Lo streetwear è una cultura, lo “streetwear” è solo una merce.
Della fine dello streetwear, della sua imminente morte o del suo mutamento in qualcosa di altro, si discute da tempo, ma sono i recenti sviluppi a livello globale, sociale ed economico i fattori principali che potrebbero accelerare un declino che è già cominciato.
Due delle caratteristiche più importanti che hanno sempre distinto il settore dello streetwear dalla moda tradizionale, elementi di cui poi quest’ultima si è appropriata, sono il concetto di hype e di community. Si tratta di una cultura - e di un modello economico - costruiti sulla scarsità, sull’attesa, sull’eccitazione, sull’anticipazione e sull’adrenalina. Ogni settimana, ogni mese, si decreta l’item più atteso, più desiderato, quello da avere assolutamente. Acquistare un capo di Supreme, ad esempio, è diventato una sorta di gioco online in cui i vincitori non solo hanno la possibilità di mettere le mani sui tanto attesi item, ma hanno anche il diritto di guadagnarci rivendendoli a chi nel gioco ha fallito.
Se il player si dimostra abbastanza bravo e furbo è in grado di acquistarlo al primo colpo, al momento del drop; se invece inizialmente ha fallito, può sempre rimediare in un secondo momento, grazie al mercato del resell. È questa dinamica ad aver creato una comunità di riferimento, in cui perfetti sconosciuti scambiano idee, opinioni, denaro ed esperienze intorno ad un bene o ad un brand.
È un modello estremamente volubile, instabile, consumistico, di fatto già fallace, che stabilisce valori e bisogni a ritmi velocissimi, spesso insostenibili. Per sua stessa natura, è un meccanismo che deve avere un culmine, un punto di arrivo altissimo e che proprio per questo è altalenante, insano, non destinato a durare nel tempo.
E come si adatta un’industria che per anni ha costruito il proprio fascino sulla costante ricerca della next big thing quando il mondo attraversa un momento di stallo?
La diffusione della pandemia da Coronavirus a livello mondiale, oltre ad aver messo in ginocchio l’economia, ha aperto un dibattito all’interno dell’industria della moda. Con la temporanea chiusura dei negozi, la momentanea interruzione di una fragile catena di produzione costituita da elementi diversi e dipendenti tra loro, e un inevitabile calo delle vendite, brand e consumatori hanno iniziato ad interrogarsi sul significato di ‘essenziale’ e ‘necessario’, portando avanti inoltre una riflessione più ampia sul futuro di un settore che aveva raggiunto una velocità folle.
La decisione di Supreme e Palace, che dello streetwear sono i pionieri e ora i portavoci più autorevoli, di continuare con i propri drop con la stessa cadenza di un tempo, quella appartenente ad un mondo pre-COVID, è apparsa stonata, quasi di cattivo gusto, distante dalla realtà e in parte fuori luogo. Sebbene Supreme e Palace abbiano proseguito le loro release di tee, hoodies, caps e accessori vari in un momento come questo, è pur vero che quei drop sono andati puntualmente sold-out e che la loro fanbase ha continuato ad acquistare, con l’unica differenza che questa volta l’ha fatto solo online, e non in store.
A questo punto quindi occorre porsi una domanda ben precisa: cosa vogliono i consumatori? Nel tentativo di delineare una previsione su quello che sarà il futuro post-pandemia, in molti hanno voluto tracciare un parallelismo con la crisi economica del 2008. Dopo due anni durissimi e di grandi stenti, all’epoca iniziò un decennio di consumismo puro, in cui forse allora più che mai, indossare un certo tipo di abito o portare un particolare modello di sneaker decretava l’appartenenza ad un gruppo sociale ben definito e segnalava più di ogni altra cosa lo status sociale di chi la indossava.
Sono gli anni del trionfo del logo, enorme, colorato, stampato a caratteri cubitali; ma è anche il decennio dell’ascesa della superpotenza cinese e della nascita della hype culture come la conosciamo oggi, ulteriormente potenziata dalla cultura visuale di Instagram.
Per potersi salvare, all’indomani della pandemia, il mondo della moda non potrà tornare a modelli già abusati, cannibalizzati, in un mercato ormai saturo e da riformare nella sua interezza. Una malattia globale ha stabilito delle nuove priorità, ci ha fatto interrogare su cosa indossiamo, su cosa è essenziale, su ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Indossare una maglietta con un grande logo o portare una borsa da duemila euro è diventata una questione etica, che deve essere conforme e concorde allo zeitgeist. Assisteremo ad un ritorno al minimalismo, non in senso estetico, ma in termini pratici.
I criteri con cui si deciderà se acquistare un capo o meno dipenderanno dalla qualità del prodotto, dalla sua potenziale durata nel tempo, nel suo essere senza tempo e quindi durevole. La mentalità che guiderà l’acquisto sarà votata più sul lungo termine che sul presente. Torneranno a prosperare, o finalmente emergeranno, brand e marchi dal sapore e dall’estetica senza tempo, produttori di capi di qualità (e spesso e volentieri perfino sostenibili).
Quanti marchi streetwear rispondono ai criteri elencati sopra?
Nel dicembre del 2019 era stato lo stesso Virgil Abloh a dichiarare che lo streetwear era morto, o meglio, che stava mutando in qualcosa di diverso. Uno degli artefici della trasformazione dello streetwear da sottocultura a movimento di massa è tornato sull’argomento qualche settimana fa, dopo che alcune proteste contro la brutalità della polizia in seguito alla morte di George Floyd erano degenerate in saccheggi e furti in negozi simbolo dello streetwear e della sneaker culture nella città di Los Angeles.
Lo stesso store di Supreme a NYC è stato saccheggiato, tanto che il brand di James Jebbia si è visto costretto ad annullare il quindicesimo drop del 2020.
Per quanto sia difficile trovare una motivazione razionale dietro a quelle azioni, non si può ignorare che quei negozi sono stati distrutti esattamente come quelli appartenenti a potenti corporation, a catene di negozi, ad agglomerati internazionali. Distruggerli ha significato vandalizzare qualcosa che appartiene ad un establishment, a dei poteri forti, che non ha più il rapporto diretto con la strada, ma che è entrato a far parte della cultura mainstream dominante.
Negli ultimi dieci anni, lo streetwear è stato “istituzionalizzato”, è entrato nelle Maison del lusso, è arrivato sulle passerelle di tutto il mondo, è stato preso, copiato, svuotato, rivoluzionato.
Un capo come una hoodie di Off-White™o una Boxlogo di Supreme è passato da essere un simbolo di valori accuratamente stratificati dentro loghi e grafiche con un significato preciso all'interno di una specifica comunità di riferimento, a parte di un business più ampio e globale, privo di ogni inclinazione culturale.
Era questo il drive sociale che spingeva dei ragazzini a fare ore di camp-out fuori dai negozi, il fine ultimo era sentirsi unici perché parte di un gruppo di persone che riconosce valore dove altri vedono solo una maglietta bianca. Oggi lo streetwear è diventato globale e la comunità di riferimento è il mercato.
Si è definitivamente rotto l’incantesimo: se la comunità è il mercato intero, il valore del bene sparisce, agognato da tutto il mercato, l’item tanto ricercato da bene relativo diventa bene assoluto.
I consumatori torneranno ad acquistare sneaker e vestiti, ma lo faranno con un approccio diverso, dettato da un ritrovato senso di responsabilità sociale. Quella che sopravviverà alla pandemia sarà una generazione immune all’hype, per cui fare un acquisto avrà un significato molto più politico e culturale che meramente estetico. Senza una componente diventata così centrale, è difficile che lo streetwear, per come lo conosciamo oggi, riesca a sopravvivere immutato, in uno scenario completamente inedito.
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