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Che fine hanno fatto gli eSports?

Da fenomeno globale in pandemia a bolla non più sostenibile

Che fine hanno fatto gli eSports? Da fenomeno globale in pandemia a bolla non più sostenibile

Nell’ultimo decennio gli eSports sono passati dall’essere un prodotto “da nerd” - ovvero un fenomeno di nicchia che nel 2014 generava globalmente 200 milioni di dollari circa di fatturato - a una dimensione “mainstream”, cioè di intrattenimento digitale di massa, perlomeno in alcuni Paesi. Secondo i dati disponibili su Statista, Newzoo e BCG (Boston Consulting Group), l’industria nel 2021 ha sfondato il miliardo di dollari di ricavi, arrivando a rivolgersi ad un pubblico di quasi 550 milioni di persone in tutto il mondo e raccogliendo adesioni da capogiro per eventi come il League of Legends World Championship (173.8 milioni di viewers totali), le Free Fire World Series (5.4 milioni sintonizzati simultaneamente) e il Dota 2 International (2.7 milioni).

Tutto ciò ha attirato attenzioni, investimenti e sponsor di alto profilo, anche al di fuori del segmento di riferimento. Brand come Nike, Mastercard e Red Bull, ad esempio, sono stati attratti da questo business in vertiginosa espansione, immettendo capitali e contribuendo ad aggiungere zeri nei montepremi dei principali eventi. Basti pensare che nel 2021 il Dota 2 International ha messo in palio una cifra record di 40 milioni di dollari, mentre la Fortnite World Cup del 2019 si è “fermata” a quota 30, riconoscendo a Kyle “Bugha” Giersdorf (vincitore della categoria singoli) ben 3 milioni. Da allora, però, qualcosa sembra essersi inceppato negli ingranaggi di un settore che dopo la pandemia non è riuscito a dare seguito ai precedenti ritmi di crescita, dando anzi qualche preoccupante segnale di fragilità.

Una crescita insostenibile

Dietro l’apparente stabilità, i modelli di molte organizzazioni esports si sono rivelati meno solidi del previsto, soprattutto nel mercato occidentale, dove l’eccessiva dipendenza da sponsor e media rights ha iniziato a mostrare i propri limiti; il tutto, nel pieno di un momento storico non certo d’aiuto (causa pandemia e non solo) e nello specifico all’interno di un contesto sempre più frammentato e vicino alla saturazione, il cui spazio si è ridotto con il ritorno di sport ed eventi dal vivo dopo l’emergenza sanitaria. I dati testimoniano tale flessione, e fanno suonare un campanello d’allarme che non può essere ignorato.

Negli Stati Uniti, uno dei mercati più prolifici, la Overwatch League ha registrato un calo di spettatori del 30% rispetto ai picchi raggiunti tra febbraio e agosto 2020, quando la disponibilità del pubblico era inflazionata per via delle restrizioni dovute al contenimento del Covid; Activision Blizzard ha ridotto drasticamente il montepremi per le finali del 2023, mentre la Call of Duty League ha avuto un down di audience superiore al 17% in uno dei suoi eventi principali del 2024; nel complesso, l’espansione degli eSports ha subito un netto rallentamento, retrocedendo da tassi di crescita annua del fatturato intorno al 25-30% (2015-2019) a un ritmo compreso tra il 15% e il 20% (2021-2023). Il pubblico, insomma, sembra non bastare più per sostenere il modello ultra-competitivo che queste leghe cercavano di perseguire e calcificare. Il monito di Nicole LaPointe Jameson, CEO del team Evil Geniuses, è piuttosto chiaro: “Senza un’integrazione più strutturata del pubblico, sarà difficile mantenere la stessa intensità di crescita”.

Modello cinese

Allo stato attuale, parlare di crisi sarebbe improprio, o perlomeno precoce. Prima di tutto, per i risultati che si registrano nel mercato asiatico e soprattutto cinese (ma anche coreano e singaporeno), che da solo genera circa il 40% degli introiti globali. Appuntamenti come la League of Legends Pro League e la King Pro League attraggono ancora milioni di spettatori in Cina, con un pubblico che si dimostra più fidelizzato e un mercato meno soggetto a oscillazioni rispetto a quello occidentale. Il fondamento di questa stabilità? In primis, un maggiore equilibrio tra introiti derivanti da sponsorship e coinvolgimento dell’utenza.

Il modello cinese ha intrapreso con largo anticipo, infatti, una direzione che oggi appare inevitabile su scala più ampia. Ovvero, il tentativo di penetrare l’ecosistema digitale in modo più organico, soprattutto attraverso lo streaming su Douyu, Bilibili e Huya (ricordando che Twitch è sulla lunga blacklist dei social oscurati da Pechino), piattaforme molto popolari tra i giovani e che godono di ampia visibilità, trasmettendo alcuni eventi anche sull’emittente televisiva nazionale Tencent. L’esempio offerto da Pechino si è trasformato così in un punto di riferimento per l’intero comparto, la cui sfida nei prossimi anni sarà emanciparsi maggiormente dagli investimenti degli sponsor e dai proventi dei diritti mediatici. “Gli esports non stanno scomparendo”, si legge in un recente report pubblicato su Business Insider, “ma stanno inevitabilmente ripensando la propria struttura per adattarsi a una nuova fase”.

Verso una nuova sostenibilità

Prosperare sarà possibile solo accettando di adattarsi a un ritmo di crescita più sostenibile”, conferma il BCG all’interno di un’analisi di mercato pubblicata nel 2023, che evidenzia come la diversificazione dei ricavi sia un fattore cruciale in tale processo. La contrazione degli ultimi anni, dunque, va inquadrata non per forza come l’inizio del declino, bensì - prendendo in prestito un’espressione usata da The Esports Observer - nei contorni di un “consapevole ridimensionamento”; un cambio di rotta, cioè, che tende a una base stabile e sostenibile nel tempo, meno legata ai grandi eventi e più integrata nel quotidiano, con un ventaglio più variegato di fonti di guadagno.

I team stanno sperimentando nuovi approcci. La società americana Cloud9, per esempio, ha investito nella creazione di contenuti originali per piattaforme come YouTube e Twitch, puntando forte sul contributo di influencer e creator per mantenere alta l’attenzione senza dover contare su eventi multimilionari. Altri casi emblematici della transizione in atto sono rappresentati da organizzazioni come Fnatic (inglese), TSM e 100 Thieves (statunitensi), che hanno lanciato linee di abbigliamento, prodotti di merchandising e brand collaborativi per ampliare il proprio business.

Le parole di Jacob Wolf, giornalista di Dot Esports, riassumono bene l’attuale situazione: “l’esports market non sta morendo, si sta evolvendo”. Il processo di maturazione cui stiamo assistendo affonda le radici nella consapevolezza di dover rivedere le fondamenta economiche del settore, e quindi di ristrutturare il rapporto tra attori protagonisti e community: un percorso che potrebbe portare il settore ad essere meno appariscente, ma con un business model più robusto sul lungo termine.