Gospel Estudios
A perfect Circle
Hector Bellerín ha fatto di tutto. E lo ha fatto prima e meglio di tutti. Dai Front Row della Fashion Week alle passerelle di Louis Vuitton, dal collaborare con brand di moda a scattare campagne fashion. Ed ancora indossare maglie vintage da calcio, anni prima che il Bloke Core fosse codificato, o parlare di temi etici e sociali before it was cool. Ovviamente mentre giocava nei campionati più competitivi in Europa indossando maglie di club iconici, dall’Arsenal al Barcellona, fino a trovare a Siviglia un perfetto habitat dove coltivare tutti i suoi interessi anche lontano dal rettangolo di gioco. E quando a inizio giugno ha annunciato il lancio del suo brand d’abbigliamento Gospel Estudios, scattarlo più che una possibilità è diventata una vera e propria necessità. Alla fine lo abbiamo incontrato nei suoi luoghi del cuore della città andalusa, insieme al resto del team di Gospel Estudios, per il nuovo capitolo di More Than.
Più che un brand di moda, Gospel Estudios è un collettivo in cui ogni tassello è stato aggiunto nel tempo, creando quella che lo stesso Bellerín definisce una tela di ragno fatta di incontri, amicizie e sfioramenti. «Non volevo fare un brand di vestiti solo con il mio nome. E non ho mai promosso il marchio come se fosse mio, esclusivamente mio. Parlo sempre del nostro collettivo, perché per me tutto ciò che conosco di vestiti è lì dentro, ma è l’insieme di tutte le conoscenze delle persone che ne fanno parte». Come tutti i pionieri, anche Bellerín non si ritiene tale. «Io e Horacio abbiamo iniziato il progetto quando eravamo in quarantena, ed all'epoca avevo già fatto un paio di progetti con brand di moda. La mia ultima collaborazione che ho fatto con H&M è andata molto bene e mi ha dato la fiducia necessaria per esplorare ciò che potevo fare».
La passione verso quel mondo è familiare - «mia madre lavora da sempre nel mondo della moda, e crescendo mi ha sempre appassionato l’arte di creare dei vestiti» - ed in qualche modo Bellerín ha voluto ricreare quella sensazione dentro Gospel Estudios. «Ho incontrato Horacio anni fa durante un Primavera Sound Festival e siamo diventati amici. Horacio conosceva Quim che a sua volta conosceva Clara, che è entrata in squadra anche lei». Irsa e Quim sono gli stilisti, insieme ai quali hanno disegnato l’intera collezione uscita a giugno ma la famiglia è molto più estesa. Anche perché nella testa di Bellerín, Gospel Estudios non può essere solamente un brand di vestiti. «Ho sempre amato i vestiti e l'espressione di sé che ti danno. Per me sono sempre stati un'arte e uno strumento per arrivare alle altre persone».
Infatti paradossalmente per Bellerín il momento in cui ha lanciato il suo brand è coinciso anche con quello nel quale si è sentito più lontano dalla moda, o almeno dal suo contorno. «La moda sta perdendo la sua essenza, specialmente nei cosiddetti brand sostenibili. Mi sembrano tutti molto noiosi e cercano solo di realizzare la next big thing, e poi un’altra ancora, e ancora». Gospel Estudios invece ha reso sempre molto chiara la sua ispirazione e la sua origine, «ci sentiamo influenzati da tantissime esperienze durante il processo di creazione, siamo partiti da uno studio su cosa ci interessava riguardo non solamente la moda, ma anche il cibo, la musica e diversi tipi di arte. E ci sentiamo molto legati alle nostre radici.»
Basta provare ad acquistare sul sito di Gospel Estudios per capire meglio le parole di Bellerín. «Il nostro sito web non è solamente uno store, ma un almanacco di storia spagnola. E quando provi a comprare qualcosa ti arriva un messaggio che ti chiede se davvero hai bisogno di quel capo». Vendere non sembra essere una priorità per Bellerín, e neanche per i suoi colleghi in Gospel Estudios. «I nostri commercialisti credono che siamo pazzi, ma è quello che siamo. Non possiamo blaterare di essere più sostenibili nel nostro rapporto con la moda e poi lanciarti i vestiti in faccia». È ben più importante creare un brand orizzontale e credibile, che si fonda con la città e la sua cultura, come mi spiegherà più tardi Bellerín. «Vogliamo che le persone siano consapevoli quando acquistano Gospel Estudios, è come se firmano un contratto con noi in termini di “mi prenderò cura di questo prodotto e voglio dargli lo scopo che si è prefissato».
Sembrano passate ere geologiche da quando Bellerín frequentava per la prima volta la London Fashion Week. All’epoca il calcio e la moda erano due galassie lontanissime senza alcuna possibilità di connessione, come ricorda lo stesso difensore del Betis Siviglia: «quando ho iniziato ad andare alle sfilate di moda o a farmi vedere in Fashion Week a Londra, non c'era nessun altro che lo facesse. Non ho mai pensato a quel tempo che il calcio avrebbe mai potuto avere un ruolo nella moda. Se mi aveste detto quanto sono diventati ora intrecciati uno nell’altro non ci avrei mai creduto». Invece Bellerín è diventato una figura chiave in questo avvicinamento, rompendo alcuni tabù che imprigionavano entrambi i mondi e liberando un’energia che ancora oggi definisce l’estetica sia della moda che del Beautiful Game.
«Vogliamo che le persone siano consapevoli quando acquistano Gospel Estudios, è come se firmano un contratto con noi in termini di “mi prenderò cura di questo prodotto e voglio dargli lo scopo che si è prefissato".»
«Vogliamo che le persone siano consapevoli quando acquistano Gospel Estudios, è come se firmano un contratto con noi in termini di “mi prenderò cura di questo prodotto e voglio dargli lo scopo che si è prefissato”.»
«Andavo a quelle sfilate e la gente mi diceva: “Cosa vuol dire che sei un calciatore? Tipo, che ci fa qui un calciatore? Oh, non ti vesti così male per essere un calciatore. C'erano sempre commenti di questo tipo e quando qualcuno mi raccomandava ad un brand di moda per qualche lavoro insieme loro dicevano immediatamente: “Oh no, è un calciatore”.» La parola calcio all’epoca era un avvertimento, una red flag. Ora che sono i brand di moda a cercare in ogni modo di associarsi ad atleti e calciatori, i rapporti di forza si sono come ribaltati. «Devo ammettere che il paradigma è completamente cambiato negli ultimi sei anni. Ricordo ancora quando l’Arsenal ha lanciato la collezione 424, fu il primo brand di streetwear a collaborare con una squadra di calcio. E ora questo tipo di collabo sono ovunque.» Sono state queste le piccole cose che piano piano hanno aperto uno spazio, spingendo un po' più in là i muri che lo delimitavano. «Ma se devo essere onesto, non è qualcosa a cui ho pensato. Andavo alle sfilate di moda perché ero entusiasta di andarci, di incontrare persone, di vedere amici che lavoravano lì, era parte di qualcosa che mi piaceva, che mi veniva naturale per questo. Infatti tutto quello che è successo dopo è stato molto organico.»
Ora che le maglie da calcio sono diventate l’oggetto del desiderio di tutti, fashionisti e fans, Bellerín da collezionista e frequente indossatore, riflette su come siamo arrivati a vedere Travis Scott con la maglia di Antonio Chimenti. «Il mondo della moda non lo ammetterebbe mai, ma anche prima era influenzato dall’estetica calcistica. È davvero interessante vedere quanto il calcio sia culturale, perché tutti, anche chi non gioca o segue un club, capisce il significato di indossare una maglia da calcio». In un epoca nella quale tutti sono alla costante ricerca di un pizzico di identità nelle loro vite, le maglie da calcio sono uno strumento magico di appartenenza e valori. Basta indossare una vecchia casacca di una squadra semisconosciuta per essere parte di una comunità più grande, che riguarda sia lo stile che lo sport. «Le magliette da calcio, soprattutto quelle degli anni '90, hanno molta più sostanza delle magliette da calcio di oggi. Ora ogni estetica dura sei mesi e poi via con la successiva. È tutto così veloce che la nostalgia è un modo per le persone di sentirsi più reali, perché almeno ispirandomi agli anni '90 mi sento come più umano o connesso ad un ideale comune».
A Bellerin questo rapporto tra calcio, persone e luoghi interessa molto. Lo si capisce anche da quando scattiamo lui ed il team di Gospel Estudios in alcuni dei luoghi che preferisce a Siviglia, dal Mercado de Triana al Bar Garlochí, che rappresentano davvero l’essenza della città. «Credo che ai tempi, quando i club creavano una maglia da calcio, non la facevano per cercare di renderla virale. Facevano quelle maglie perché pensavano che li rappresentassero» - dice ancora Bellerín riguardo all’essenza delle maglie - «Nella mia idea di mondo, quando si crea qualcosa con uno scopo puramente di venderlo, credo che si perda molto del suo significato». Non stupisce quindi che Bellerín non sia mai stato attratto dai Tunnel Fits - «sono un simbolo dell’americanizzazione del calcio. Credo sia molto cool e sia uno spazio utile per esprimere se stessi, ma ci sono anche altri modi senza dover far vedere quanti soldi si hanno a disposizione». Fanno parte di un sistema che non gli appartiene, anche se in qualche misura ha avuto un ruolo nel crearlo, accettando i lati più brillanti come quelli che gli interessano meno. «Penso che sia bello che ci siano delle differenze, capisci cosa intendo? Ad esempio il calcio ha il suo modo di fare le cose, il basket ha il suo. In Europa abbiamo un modo e gli americani ne hanno un altro. Quindi penso che faccia parte delle diverse culture, il modo in cui viviamo lo sport qui è completamente diverso da come lo vivono loro».
A Barcellona ora è Jules Koundé a portare alta la bandiera dei terzini sinistri con più stile al mondo, tanto che anche Bellerín si mette a ridere quando gli faccio notare come forse ci sono dei ruoli dove l’estetica è più sentita. «Forse è davvero così, magari giocare da terzino ti fa vedere tutto il campo di fronte a te, vedi cosa fa ogni altro giocatore in campo, è un ruolo quasi riflessivo». E ti permette a quanto pare di esprimere il proprio lato fashion senza condizionamenti o influenze esterne, ma seguendo solamente il proprio istinto e la propria sensibilità. «Mi piace il fatto che ragazzi come Jules siano davvero interessati alla moda e stiano esplorando le possibilità che ora hanno a disposizione. Anche la campagna realizzata con Jacquemus, è un prodotto fatto da qualcuno che è appassionato di moda, che ha una sua estetica». Con Bellerín non è mai un discorso di cosa, ma sempre di come. È una questione di metodo, di approccio verso ogni passione che lo investe. Non ha paura di essere radicale Bellerín, di mostrare la sua visione delle cose, che rimane costante mentre il mondo attorno a lui cambia.
«Tutto ciò che ho fatto nella mia vita l'ho preso sul serio. Credo che questa sia una delle cose che sia davvero radicata nella mia personalità e quando trovo qualcosa di interessante per me, voglio sapere tutto su di esso. Quando mi sono interessato alla moda, ho letto libri, mi sono iscritto a vari corsi. Volevo imparare. Volevo sapere. Per esempio, ho imparato a disegnare in 3D senza motivo, solo perché c'era un nuovo strumento e sapevo che c'erano cose che potevo creare con esso. E ho imparato, sai, ho seguito corsi di fotografia, di tutto ciò che mi piace. E per me avere una mente attiva è qualcosa di importante nella mia vita. E questo mi ha dato le opportunità per arrivare ai risultati che ho ottenuto».
Throughout the story full look GOSPEL ESTUDIOS. Football shoes SOKITO.
Photographer: Adriana Roslin
Stylist: Adrián Lorca
Stylist Assistant: Aaron Días Rossi
Make Up: Sarah Caceres
Make Up Assistant: Jesus Martínez Beltrán
Make Up Assistant: Israel Pavón Espejo
Interview: Lorenzo Bottini