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A Parigi l'Italia «ha fatto tennis»

In un’edizione che verrà ricordata per la consacrazione definitiva di Djokovic

A Parigi l'Italia «ha fatto tennis» In un’edizione che verrà ricordata per la consacrazione definitiva di Djokovic

Alla fine, nonostante l’assenza di Jannik Sinner, quella parigina è stata una spedizione olimpica memorabile per l'Italtennis. Sabato la prima medaglia dopo un secolo, domenica il bis addirittura con l’oro olimpico: tutto in 24 ore di adrenalina, sofferenza e, infine, grandi sorrisi bagnati da lacrime di gioia. Quelli di chi sa di aver scritto pagine indelebili nella storia dello sport azzurro: nessuno potrà togliere a Lorenzo Musetti il primato stabilito con il successo nella "finalina" del maschile singolare, così come l’impresa firmata Jasmine Paolini e Sara Errani nella finalissima del doppio femminile. Non male, se pensiamo che nell'Era Open l'Italia non aveva mai occupato un posto sul podio, in nessuna delle cinque specialità; e ricordando che l’unica medaglia olimpica - il bronzo di Uberto De Morpurgo nel 1924 (sempre a Parigi) - è datata ormai un secolo. Stavolta nel tennis in termini di metalli siamo stati complessivamente la seconda miglior delegazione, dietro soltanto alla Cina.

Di mezzo tra le due sfide, sul campo del Philippe Chatrier si è giocata la finale più attesa dall’audience mondiale, se non altro per l’eredità sportiva che in un senso o nell’altro portava in dote, come hanno raccontato nitidamente le emozioni al termine dell’incontro. Novak Djokovic ha dato un ulteriore - e forse neanche necessario - assaggio della sua forza. La sua è una carriera che sembra non conoscere la parola "fine", e nemmeno il significato di "declino": caso mai fosse ancora necessario, lo testimonia la qualità del gioco e la solidità mentale espresse dal serbo contro Carlos Alcaraz, a 37 anni di età e con una condizione fisica non ottimale. Guardando alla sua carriera, l’unica domanda possibile ormai è se si tratti del miglior tennista mai nato. E, risultati alla mano, sembra sempre più univoca anche la risposta: "Nole". Per completare lo spettro tennistico di questa appassionante edizione olimpica: Zheng Qinwen (Cina) si è confermata nella finale contro Donna Vekic (6-2, 6-3), portando a termine il capolavoro iniziato giovedì con l’eliminazione della super-favorita Iga Swiatek; Matthew Ebden e John Peers (Australia) si sono laureati invece campioni del doppio maschile, mentre Katerina Siniakova e Tomas Machac (Repubblica Ceca) nel misto.

L’acuto azzurro

Nei momenti decisivi, davanti al pubblico parigino le nostre racchette non hanno affatto tremato. Musetti, attuale numero 17 del mondo, era impegnato contro Felix Auger-Aliassime: è partito forte (6-4) ma ha sbandato vistosamente nel secondo set (1-6), che sembrava il preludio di un finale a tinte canadesi. E invece, tutto il contrario: non è uscito dalla partita, e sul più bello ha ritrovato il suo tennis e tutta l’energia necessaria per imporsi nel terzo set (6-3). «Con la maglia azzurra addosso, in questi giorni mi sono quasi dimenticato di tutti i dolori e la stanchezza con cui sono arrivato a Parigi», ha raccontato compiaciuto. In effetti c’è molto di cui essere orgogliosi nel suo recente passato, e l’istantanea scattata sul podio olimpico al fianco di due fenomeni come Djokovic e Alcaraz, si può dire, vale una carriera. «Ora siamo qui a festeggiare: io, le ragazze, ma è la vittoria di tutta la delegazione e di tutti gli italiani, e ce lo meritiamo».

Per raggiungere il loro lieto fine, anche Paolini ed Errani hanno vissuto un ultimo chilometro di alti e bassi. Hanno cominciato male contro Mirra Andreeva e Diana Shnaider, mostrando più di qualche difficoltà nel primo set (2-6); poi, però, è iniziata sostanzialmente un’altra partita, a ruoli invertiti: secondo set a senso unico (6-1) e poi 10-7 nel super tie-break, che ha dato il là a una festa meritata e attesa da tempo, per motivi differenti, da entrambe. In una finale con i connotati della sfida generazionale - le due giovani russe, insieme, hanno l’età di Errani - alla fine è prevalsa l’esperienza. Quella di cui ha fatto tesoro Paolini durante un 2024 da sogno, con gli exploit nel Roland Garros e a Wimbledon, poi l’ingresso nella top-5 del ranking WTA - ma anche con quel velo di frustrazione ereditata dalle tre finali perse nei tornei dello Slam (due in singolare e una in doppio). In attesa della prossima occasione, Jasmine intanto si è regalata una prima, bellissima rivincita. Ci è riuscita insieme alla specialista del doppio e "ultra-veterana" Errani, 37 anni, cui non mancava certo il vissuto in occasioni del genere; ora, nel suo personale palmares c’è davvero tutto: "Career Golden Slam" completato.

Una gioia immensa, davvero, è surreale”, ha confermato Paolini, con la candidezza cui ci ha abituato nelle interviste, anche dopo le sconfitte. «Un anno fa l’obiettivo era qualificarsi alle Olimpiadi», continua, «ora siamo qua con l’oro al collo: un sogno, è pazzesco». Sulla stessa lunghezza d’onda la sua compagna, visibilmente commossa: «Per me è il sogno più grande che si realizza, non c’è niente come le Olimpiadi, e con questo oro al collo sono troppo felice».

Imprimatur olimpico

Un paio d’ore prima di Errani, anche Djokovic ha dunque completato il suo personale "Career Golden Slam", chiudendo uno dei pochi cerchi rimasti ancora aperti nella sua carriera. Il primo tentativo risale a Pechino 2008, quando fu eliminato da Nadal in semifinale; sedici anni dopo, e dopo averne compiuti 37, è finalmente arrivato l’oro olimpico, da terzo più anziano di sempre a riuscirci (dopo Arthur Gore e Josiah Ritchie, più di un secolo fa). Il serbo si è unito così ad Andrè Agassi, Rafael Nadal, Steffi Graf e Serena Williams nel club di chi ha vinto praticamente in ogni contesto immaginabile. A Parigi, Djokovic ha arricchito una bacheca che già comprendeva 24 Slam (tra cui 10 Australian Open e 7 Wimbledon), 7 ATP Finals, un centinaio circa di titoli in totale nel circuito maschile singolare, e tremila giorni circa in vetta al ranking. Si può legittimamente sostenere che lungo questo percorso abbia ridefinito i concetti di longevità ed eccellenza tennistica, e che abbia portato definitivamente la sua legacy su un piano proibitivo per chiunque. Forse non sarà piaciuto come Federer, e non avrà regalato le emozioni di Nadal, ma uno come Novak Djokovic non è mai esistito.

La parte surreale di tutto ciò è che il suo lungo viaggio non sembra ancora arrivato a destinazione, anzi: nel 7-6, 7-6 inflitto ad Alcaraz ha giocato a un livello stellare, non troppo distante dalla sua miglior versione di sempre, che peraltro è impossibile da collocare nel tempo. E se la sua mentalità da cyborg - durante il match non ha letteralmente perso un punto importante - e la sua integrità fisica - bastano tre ore di gioco a un ritmo infernale? - non sono una novità, ogni giorno che passa c’è un motivo in più per stupirsi davanti a questa leggenda. Anche se ormai abbiamo familiarità con le sue vittorie. Riprendendo il riferimento di adaniana memoria che certamente avrete colto nel titolo: «perchè così fanno i fenomeni generazionali», normalizzano l’eccezionale. Insomma, è stata una grande Olimpiade per il tennis, nostro e non solo. Pazienza se da una dozzina d’anni i cinque cerchi non valgono niente in termini di ranking ATP e WTA; e pazienza, per quanto ci riguarda, se il viaggio verso Parigi è iniziato col piede sbagliato, cioè con l’ondata di - eccessive - polemiche per l’assenza di Sinner. Per il CIO e per il pubblico, sulla terra sacra del Roland Garros è stata una settimana indimenticabile. E per l'Italtennis, ancora di più: un trionfo senza precedenti che certifica lo scintillante stato attuale di salute del movimento tennistico. Con o senza punta di diamante.