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Il sole non è mai tramontato sulla Celtic Nation

Come Boston ha vinto il suo diciottesimo titolo e cosa rappresenta per l'NBA

Il sole non è mai tramontato sulla Celtic Nation  Come Boston ha vinto il suo diciottesimo titolo e cosa rappresenta per l'NBA

Game, set, match, championship: i Boston Celtics ce l’hanno fatta, hanno vinto anche gara 5 delle NBA Finals e hanno conquistato il loro diciottesimo titolo, tornando ad essere - esclusivamente - la franchigia più vincente nella storia del basket americano. Il successo di ieri notte contro Luka Doncic e i suoi Dallas Mavericks (106-88) ha fatto scorrere i titoli di coda su una post-season dominata in lungo e in largo dai Verdi, guidati da Jayson Tatum, dall’MVP delle Finals Jaylen Brown e da un supporting cast a dir poco elitario (White, Holiday, Horford e Porzingis su tutti). La squadra di coach Joe Mazzulla si era presentata all’atto finale dopo aver vinto 12 partite su 14 totali nel tabellone della Eastern Conference, e anche ai campioni della costa occidentale ha concesso una sola gara, peraltro sul 3-0, a serie già ampiamente indirizzata. Al TD Garden verrà presto appeso, dunque, il tanto atteso banner numero 18, con cui la franchigia del Massachusetts rimette il naso davanti ai Lakers, dopo il pareggio di conti nel 2020.

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L’opening night della prossima stagione, con la tradizionale consegna degli anelli - una serata di festa che a Boston manca dal 2008, anno dell’ultimo titolo. In questo arco di tempo il team di Brad Stevens, allenatore per otto stagioni (2013-2021) e poi President of Basketball Operations, ha attraversato una fase di ricostruzione, prima di entrare in quella che Oltreoceano chiamano “championship window”; una finestra che è stata ed è particolarmente longeva, e che rappresenta un premio alla programmazione e alla pazienza del front office guidato a lungo da Danny Ainge. Nel frattempo il pubblico si è abituato - e un po’ annoiato, come accade a chi ha la “colpa” di non cambiare look per anni - a vedere i Celtics costantemente ai massimi livelli. Sei Conference Finals e tre NBA Finals giocate dal 2016 a oggi, con i destini della franchigia nelle mani, fuori dal campo, di due figli dell’organizzazione come Stevens e Mazzulla, e sul parquet di due talenti cresciuti in casa quali Tatum e Brown. Mancava il traguardo più importante, il Larry O’Brien Trophy. Ora non più.

Vincere al TD Garden

I Verdi sono riusciti a coronare tutto ciò e a regalarsi l'agognata parata celebrativa, attesa in giornata nelle strade della Beantown. E poi, finalmente, un’estate spensierata, senza rimpianti di alcun tipo. Non lo sarà di certo la sconfitta in Gara 4 a Dallas, per quanto netta (122-84), che sembrava aver messo in discussione quantomeno l’inerzia della serie. Al contrario, la partita di venerdì è stata uno dei pochissimi passi falsi delle ultime settimane, e a posteriori il classico, proverbiale male a fin di bene. Ha concesso ai Celtics, sostanzialmente, un championship point tra le proprie mura - ovviamente sold out, a prezzi stellari - e senza troppi patemi, tanto per il 3-1 quanto per il certificato gap tra le due squadre. Certo, tale momento è e resta il sogno di qualsiasi cestista, qualunque sia il contesto e l’atmosfera - ma viverlo insieme ai propri tifosi è un’altra storia, come raccontano le immagini del TD Garden ieri sera.

Un’altra storia soprattutto per la Celtic Nation, i cui esponenti più anziani hanno vissuto le abbuffate di anelli negli anni ‘60, ‘70 e ‘80, ma ne sono diventati sempre più nostalgici dal 1986 (penultimo titolo) ad oggi, spartendo poco o nulla con le nuove generazioni. In totale, con quello in arrivo, saranno 42 i banner appesi al soffitto del TD Garden, contando anche i 24 dedicati alle maglie ritirate: una densità di stendardi che riflette la gloriosa tradizione della franchigia, con la firma di tanti campioni che hanno contribuito a renderla tale. Da Auerbach a Russell, da Bird a Garnett, passando per Parish, Havlicek, McHale, Pierce e un’altra quindicina di leggende biancoverdi, per un ennesimo primato NBA che conferma il dualismo con i Lakers. 

Sono prima di tutto la storia e la tradizione di cui profuma il TD Garden, ereditata da Boston Arena e Boston Garden, a renderlo uno degli impianti più riconoscibili nell’intero panorama sportivo mondiale. Il suo tratto distintivo del resto, l’iconico “parquet incrociato”, affonda le radici agli albori dell’organizzazione, tra anni ‘40 e ‘50. Il colpo d’occhio era dovuto in origine alla qualità del legno utilizzato, non di primissima qualità, ma è diventato ben presto una scelta identitaria della franchigia; e in un certo senso il suo simbolo, tanto che nel ‘99, al momento della sostituzione del pavimento, alcuni pezzi sono stati donati ai tifosi più fedeli della squadra. Qualcuno è tornato recentemente agli onori della cronaca, ad esempio una porzione di campo autografata da Bill Russell e utilizzata nelle NBA Finals 1957, battuta all’asta per 8.750 dollari sulla piattaforma Goldin.

“Bleed green”

Vincere in casa ha sempre avuto un sapore speciale per i Celtics, proprio per la sensazione di aver raccolto e onorato un testimone prestigioso in un tempio del basket; e a maggior ragione ha un significato particolare adesso, per tutte le generazioni successive al periodo in cui la squadra, nei tre decenni dopoguerra, imponeva un dominio incontrastato sulla lega. L’immagine, l’identità e la cultura dei Celtics, comunque, non hanno (eccessivamente) patito la carenza di successi in questo lasso temporale, né tantomeno ne hanno risentito la popolarità globale e il valore commerciale della franchigia. Boston ha costantemente rappresentato, anche in periodi sportivamente non entusiasmanti, un punto di riferimento dell’NBA in tutto il mondo. Con l’avvento della globalizzazione ha rappresentato un ambasciatore e fedele alleato di David Stern prima e Adam Silver poi. Nella scorsa stagione il merchandising biancoverde è stato il terzo più venduto in assoluto, in primis grazie alle maglie di Tatum (la quinta più venduta) e Brown (tredicesima), ma anche al vintage, tra cui ovviamente le Mitchell & Ness Hardwood Classics di Larry Bird.

Pur non avendo un bacino d’utenza particolarmente ampio, e nonostante la presenza-concorrenza di Red Sox (MLB), Bruins (NHL) e Patriots (NFL), i Celtics sono sostanzialmente un “big market” nella geopolitica NBA, come conferma la vasta visibilità mediatica di cui godono. Nell’area cittadina la fanbase si attesta intorno ai due milioni di persone: un seguito molto vicino alla squadra e che “sanguina verde”, come dice uno suo slogan (“bleed green”); a cui si aggiunge un capillare seguito internazionale: un po’ ovunque in Europa ma non solo, anche nelle Filippine, in Cina (nonostante il caso-Kanter), in Russia e in tanti Paesi al di fuori degli Stati Uniti, da dove arriva ad esempio il 49% circa dei follower sui profili social.

La storia e la cultura della squadra sono il più importante patrimonio dei Boston Celtics, quarta franchigia di maggior valore dell’NBA (oltre 5 miliardi di dollari) ed unica insieme ai New York Knicks ad aver sempre giocato nella stessa città e con lo stesso nome. Una storia iniziata nel 1946, quando i proprietari delle arene più importanti degli Stati Uniti - tra cui Walter Brown a Boston - gettavano le basi dell’odierna NBA. Si sarebbero potuti chiamare “Unicorns”, o “Whirlwinds”, entrambi nomi candidati al momento della fondazione, e invece la scelta è ricaduta su “Celtics”, in virtù della forte presenza di immigrati irlandesi in città. L’unica evoluzione nel branding ha riguardato il logo, passato dal trifoglio di fine anni ‘40 al celebre leprecauno, la cui sagoma si è evoluta nei decenni fino al design inaugurato nel 1996, e destinato all’Olimpo dei loghi sportivi. Non c’è angolo del mondo in cui quello stemma non venga riconosciuto, in cui non ci sia qualcuno che “sanguina verde” e che stamattina ha avuto un dolce risveglio, da campione NBA per la diciottesima volta.