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Quando gli allenatori e club si lasciano male

La sfuriata di Allegri in finale di Coppa Italia non è la prima, anzi

Quando gli allenatori e club si lasciano male La sfuriata di Allegri in finale di Coppa Italia non è la prima, anzi

Esoneri, dimissioni, svincoli, cessioni: sono diversi i modi con cui si può concludere il legame tra un allenatore e un club, ma spesso non è la formula della separazione a distinguere i rapporti finiti male da quelli conclusi serenamente. Un tema, questo, tradizionalmente d’attualità nel periodo attuale dell’anno, sul finire della stagione, e in particolar modo nei giorni seguenti al terremoto che ha travolto la Juventus, scesa in campo a Bologna guidata (ad interim) da Paolo Montero.

La seconda avventura di Massimiliano Allegri a Torino si è conclusa nel modo più “rancoroso” possibile, con l’esonero del tecnico livornese in seguito alla vittoria della Coppa Italia e allo “show” che lo ha visto protagonista allo Stadio Olimpico, prima e dopo il triplice fischio; un caso in cui le frizioni hanno raggiunto il pubblico in modo tanto nitido ed eclatante che è addirittura emersa la possibilità di un licenziamento per giusta causa, a discapito dei sette milioni di euro previsti per l’ultimo anno di contratto. L’implosione delle tensioni, del resto, è avvenuta davanti alle telecamere - dall’espulsione nei minuti di recupero alle parole successivamente rivolte a dirigenti bianconeri, classe arbitrale e media - e così l’annuncio ufficiale del club, diramato venerdì mattina, è sembrato un’inevitabile conseguenza.

Una lunga tradizione

I fatti di Roma hanno posto fine al rapporto - incrinato da mesi - tra Juventus e Allegri toccando picchi di tensione raramente osservati nel contesto italiano, che pure è noto per la facilità con cui i presidenti effettuano cambi a stagione in corso (16 nella Serie A 2023/24, dato più alto tra i principali campionati europei), e dunque per la ricorrenza di separazioni tumultuose. La stessa Juve, più di vent’anni fa ormai, si lasciava con Carlo Ancelotti tra polemiche e reciproche accuse, mai del tutto stemperate negli anni. “Mi odiavano per aver giocato nel Milan, a volte dovevo uscire con la polizia, non è stata una bella esperienza”, racconterà più avanti l’attuale allenatore del Real Madrid (a proposito, come non citare l’esonero “galattico” di un Fabio Capello fresco di vittoria de LaLiga); a Torino, Ancelotti era stato accolto dal celebre striscione “un maiale non può allenare” e si è congedato con “gran parte dei tifosi e della stampa contro”, parole di Umberto Agnelli. Nello stesso periodo, tra il 2000 e il 2001, anche le altre due “strisciate” si rendevano protagoniste di epiloghi infelici in tal senso: quello “televisivo” di Alberto Zaccheroni al Milan, annunciato in diretta da Berlusconi dopo la disfatta con il Deportivo LaCoruña; e quello di Marcello Lippi all’Inter, anticipato dal diretto interessato con l’intervista in cui disse che “se fosse stato al posto del presidente Moratti, avrebbe licenziato l’allenatore e preso a calci i giocatori”.

Oltre agli avvicendamenti sulle panchine delle grandi, si ricordano un’infinità di allontanamenti più e meno recenti che hanno fatto scalpore, tra cui le tensioni alimentate da quei presidenti ribattezzati “mangia-allenatori”. Vale a dire, in primis, Maurizio Zamparini, Enrico Preziosi e Massimo Cellino, rispettivamente a Palermo, Genova e Cagliari; e si può aggiungere il già citato Massimo Moratti, come ricorderanno Gian Piero Gasperini, Luigi Simoni e gli altri sedici allenatori silurati dallo storico patron nerazzurro.

Tempi e motivi talvolta discutibili, insieme a toni non sempre distensivi, hanno innescato più di qualche botta-e-risposta e fatto togliere tanti sassolini, da tante scarpe diverse, in queste piazze più che altrove. Più o meno consapevolmente, così, molti allenatori hanno raccolto il testimone di Bela Guttmann, guida del Benfica bi-campione d'Europa negli Anni ‘60, che al suo addio lanciava al club una maledizione tuttora in vita: “da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d'Europa e il Benfica non vincerà mai una Coppa dei Campioni senza di me”.

Allenatori “mangiati”

Un caso rimasto nella memoria collettiva riguarda Davide Ballardini e il suo licenziamento da parte del Genoa nel 2018, dopo aver raccolto quattro vittorie nelle prime sette giornate di campionato. Una scelta che Preziosi spiegava senza giri di parole: “non mi fa piacere mandarlo via, ma non posso continuare ad assistere a spettacoli del genere. Ci ho parlato per un’ora e mezza ma non mi ha fornito le risposte che mi aspettavo. È scarso, e infatti in 14 campionati ha collezionato 13 esoneri. L’anno scorso aveva maturato un credito, ma Ballardini resta un gestore di situazioni complicate: se inizia la stagione con una squadra, non fa il salto di qualità. È una persona per bene ma non sa mettere i giocatori in campo”. Per completezza informativa: era la terza volta per Ballardini sulla panchina del Genoa, e più avanti ce ne sarà anche una quarta; cui se ne aggiungono, non casualmente, tre al Cagliari di Cellino e due al Palermo di Zamparini.

Un altro esempio di scarsa pazienza di Preziosi è del 2012, quando cacciava Luigi Delneri dopo sole cinque partite di campionato (e altrettante sconfitte, perlomeno). Lo stesso Delneri che, tra l’altro, aveva vissuto qualche anno prima, nel 2004, un’esperienza di rara brevità, la sua prima (e unica) internazionale: è resistito una manciata di settimane, per l’esattezza 36 giorni, sulla panchina del Porto, da cui è stato esonerato durante il ritiro estivo su richiesta dei giocatori. Il caso cagliaritano di Luigi Radice, infine, chiariva già nel ‘93 il modus operandi di Cellino, il cui primo esonero da presidente non si è fatto attendere più di una giornata di campionato.

Tensioni recidive all’italiana

Ci sono poi allenatori che sembrano inevitabilmente destinati, o quasi, a rotture traumatiche, il più delle volte precedute da mesi densi di tensioni, gettate in pasto a media e tifosi. Forse per una serie di coincidenze, o più probabilmente per il loro modo di interagire (pubblicamente) con le società e per il loro stile comunicativo, a questo insieme appartengono Antonio Conte e Roberto Mancini. I due condividono un trascorso sulle panchine di Inter e Nazionale italiana, ma anche una certa recidività nel chiudere male i propri viaggi, come sperimentato proprio ad Appiano Gentile e Coverciano.

2014, 2018, 2021 e 2023: queste le date in cui i rapporti di Conte rispettivamente con Juventus, Chelsea, Inter e Tottenham si sono interrotti, sempre in modo turbolento. Il Conte-bis alla Juve (il primo è stato da giocatore) si è concluso all’improvviso, durante il ritiro pre-campionato della squadra fresca di una sorprendente vittoria dello Scudetto. Il motivo: quelle stesse divergenze di vedute sul mercato e sui progetti della società che sette anni più tardi creeranno attriti anche a Milano, con Marotta, Ausilio e la dirigenza nerazzurra (anche in questo caso dopo la vittoria del campionato). Di mezzo, la parentesi al Chelsea conclusa nelle aule dei tribunali inglesi per la buonuscita e le accuse di violazione di policy interne del club londinese; e infine le ostilità con la dirigenza del Tottenham, culminate in una conferenza stampa al veleno dell’ex CT azzurro, poco prima dell’esonero.

Le tre brusche rotture di Mancini sono datate invece 2008, 2016 e 2023, rispettivamente con Inter (due volte) e Nazionale. A distanza di otto anni il tecnico di Jesi ha sorpreso recidivamente l’ambiente e la dirigenza interista, prima Moratti e poi Thohir, con inattese promesse d’addio (la conferenza stampa dopo l’eliminazione in Champions League contro il Liverpool) e dimissioni a dieci giorni dall’inizio della stagione (ai tempi del passaggio di consegne a Frank De Boer, un altro che non ha lasciato il club nel migliore dei modi). Anche per questi esempi forse l’improvviso addio di Mancini da CT dell’Italia, in un momento cruciale del cammino verso Euro 2024, ha shockato relativamente il pubblico.

Un altro insieme di casi recidivi, infine, è stato definito da piazze “calde” come Roma e Napoli, dove una combinazione di fattori ambientali e societari hanno spesso acuito i contrasti con gli allenatori uscenti, anche in presenza di buoni risultati sul campo. Con queste note agrodolci sono andati in archivio, ad esempio, i mandati di Josè Mourinho e Rino Gattuso. Il caso più emblematico è rappresentato però da Luciano Spalletti, che ha avuto a che fare con entrambe le realtà. Per due volte ha salutato i giallorossi in un’atmosfera piuttosto ostile, prima nel 2009 per questioni di mercato, poi nel 2016 per la gestione dell’ultimo anno di Francesco Totti; e poi anche con Aurelio De Laurentiis, nonostante una storica annata del Napoli, è andato presto in rotta di collisione, abbandonando il timone poco dopo la festa-Scudetto. Nulla di sconvolgente, tutto sommato, per il pubblico italiano, che negli ultimi cinque anni ha visto una sola volta, con Stefano Pioli nel 2022, l’allenatore campione d’Italia confermato per la stagione seguente.