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Partido a partido, viaggio nell’estetica di Diego Simeone

Il documentario su Amazon Prime racconta la vita e le ossessioni del Cholo, a partire dai suoi outfit all-black

Partido a partido, viaggio nell’estetica di Diego Simeone Il documentario su Amazon Prime racconta la vita e le ossessioni del Cholo, a partire dai suoi outfit all-black

Il documentario di Amazon Prime Video racconta Diego Simeone direttamente da casa sua, con una simmetria fra il passato e il presente dell’allenatore dell’Atletico Madrid. Alte siepi e alberi circondano un bel giardino, curato, con all’interno una piscina non troppo grande, un campo da calcetto e al centro la casa. Su due piani, molto moderna, di quelle a impatto zero, interamente bianca se non per il legno degli ingressi. Interni larghi, enormi divani. Su una delle finestre che si affacciano sui suoi vicini di casa - probabilmente una delle maison di altre star come Gareth Bale e Cristiano Ronaldo, tutti abitanti nel barrio Pozuelo de Alarcon, la Beverly Hills di Madrid - Diego Simeone sorseggia un mate. Poi entra, scende le scale e apre una stanza armadio, molto grande e con due finestre che regolano la luce naturale. I vestiti sono divisi per tipologia e colori: camicie azzurre, camicie bianche, camicie nere, giacche nere, mocassini. Non è uno spazio old money, Simeone non è il tipo da mettere toni pastello e Clarks. Però si capisce che la moda per lui non è un accessorio.

Il documentario "Partido a partido", 6 episodi usciti la scorsa settimana, prende in prestito il titolo dalla sua autobiografia e rivela quanto il suo stile sia determinato dalla sua vita e il suo carattere, non dalle mode. Lo si capisce, per esempio, dal leitmotiv cromatico del nero: Simeone lo indossa non per particolari tendenze di stile, bensì per scaramanzia. Lo confessano i suoi stessi compagni, che parlano a ruota con testimonianze durante le puntate: “Il Cholo lo fa per scaramanzia, è un tipo molto scaramantico, lo era anche da giocatore”. Ma le norme estetiche anti-iattura non esulano da un guardaroba fornito soprattutto da selezioni classiche, e il documentario ci conferma la sua persistente scelta di camicia e chinos neri, di felpe o dolcevita per le uscite nel tempo libero e dei girocollo in lana merino per le reunion di famiglia. Ma se il nero è ovunque forse non è più solamente scaramanzia ma una definitiva passione personale. Sarà anche per questo che a novembre aveva indossato in una partita di Champions contro il Liverpool ad Anfield Road un cappotto in nylon firmato Prada

A parte le sortite in discoteca con camicie nineties funky, o le T-shirt oversize e un look generalmente sportivo, che siano gli shorts Nike per stare sul divano o un totale leisurewear in stile anni Novanta, il nero è sempre il colore che accompagna costantemente la sua presenza scenica. Le immagini d’archivio selezionate dal regista Javier Jiménez Vaquerizo rivelano che il nero lo accompagna dai tempi del Racing e dell’Independiente, le sue prime esperienze da allenatore. Quando, dopo il suo primo esonero in un hotel di Buenos Aires, disse alla nuova proprietà del Racing “oggi me ne andrò e diventerò un grande allenatore. Quando mi vorrete, non avrete i soldi per pagarmi”. Ipse dixit, è andata proprio così.

Quando Simeone racconta questi aneddoti, seduto e intervistato in casa sua in un format ormai standard per i documentari sportivi, che questi riguardino il passato recente o il suo periodo giovanile è sempre disteso, sciolto in una camicia azzurra. La sua biografia viene raccontata in parallelo. Da un lato le vicende della stagione 2020-21, quella della Liga vinta con le mascherine, gli stadi vuoti, e il gol di Suarez decisivo contro l’Osasuna, dall’altra il suo passato. Gli esordi prematuri in Argentina, l’arrivo al Pisa, l’amore per l’Atletico, i fasti italiani con Inter e Lazio, la carriera di allenatore con un grande spazio dedicato al suo periodo migliore, il biennio 2012-14 con le vittorie di 4 trofei tra nazionali e internazionali. E altrettanto simmetricamente, viene spiegato l’uomo, sia come sportivo vincente che come figura controversa. Non è tanto per le huevos di Atletico Madrid-Juventus che tutti ricordiamo; quanto la violenza in campo che aveva da giocatore e che lui ha trasportato nella sua weltanschauung tattica. 


Come spiegano i suoi compagni, Simeone si galvanizzava nella lotta, nella battaglia e non vedeva l'ora che nascesse una rissa. Ne nacquero episodi come i tacchetti sulla coscia di Julen Guerrero, il pugno a Redondo, la protesta con un poliziotto che gli tirò una manganellata in campo – a Siviglia, non in Argentina. Simeone oggi racconta – con un sorriso amaro, quasi imbarazzato, ma intimamente divertito – come quegli episodi appartenevano solo al campo, alla cancha, e tutte le litigate e le botte non uscivano dal rettangolo di gioco rimanendo lì confinate. Ma come dimostra il documentario, il Cholo non riesce a togliere il suo spirito sportivo dalla vita. Che non sono le botte, ma il “sì se crede e se trabaja, se puede”, il “partido a partido”. Il Simeone che va a prendere i figli a scuola e che affronta le giornate parla di unirsi, di fare squadra, di dare il massimo. Un perpetuo team building - non è un caso se anni fa il Sole 24 Ore scrisse del “cholismo in azienda” – in cui ogni membro della famiglia ha un ruolo. Può sembrare pesante, eccessivo, ma in fondo sembrano tutti contenti. 

Parla con i suoi figli riuniti attorno a un tavolo, bevendo mate, inscenando un circle time in stile Perfetti sconosciuti in cui si analizzano i rapporti padre-figlio e ci si confronta come in uno spogliatoio. Si penserà povera la moglie, Carla Pereyra, che nel suo chiodo e chinos – mucho latina – spiega che lei e il Cholo sono una squadra e che lavorano insieme per il futuro delle figlie. Non puoi togliere Simeone dal calcio, né il calcio dalla vita di Simeone.