L'arresto di Massimo Ferrero segna la fine dei presidenti vulcanici?
Il calcio italiano è stato sempre dominato da personalità istrioniche, ma forse meriterebbe di meglio
10 Dicembre 2021
Negli ultimi giorni il mondo dello sport è stato colpito dalla notizia dell’arresto di Massimo Ferrero, detto il Viperetta, per bancarotta fraudolenta aggravata che lo ha costretto, oltre agli arresti domiciliari, a rinunciare al suo ruolo di Presidente della Sampdoria. Non che la notizia abbia sorpreso in molti - Ferrero non si è mai distinto né per la limpidezza della propria condotta né per la pacatezza delle sue dichiarazioni - ma segna un ulteriore punto di svolta per il calcio italiano, che perde uno dei suoi più intensi protagonisti. Ferrero infatti, da quando ha acquisito a titolo gratuito la Sampdoria da Edoardo Garrone nel 2014, si è sempre fatto notare per la sua imprevedibile e focosa presenza, dalle interviste rilasciate fino alle cervellotiche scelte in sede di mercato e panchina. Lui stesso appena arrestato ha ammesso che stava andando da Dejan Stankovic per convincerlo a diventare il nuovo allenatore della Samp.
Una passione per le panchine ballerine che condivideva con il suo dirimpettaio nella metà rossoblu di Genova, Enrico Preziosi, che ha passato i suoi diciotto anni di presidenza a cacciare ed a riprendersi gli allenatori come fossero vecchi amanti. Anche lui neanche un mese fa ha finalizzato la vendita della squadra alla holding americana 777 Partners capeggiata dal medico Alberto Zangrillo. Così Genova perde in ravvicinata sequenza i presidenti delle sue squadre, due personalità esuberanti e caotiche che, nel bene e spesso nel male, hanno caratterizzato la vita sportiva della città.
Ma non sono solo Preziosi e Ferrero a lasciare il mondo del calcio, è un'intera categoria di presidenti dispotici, accentratori, tifosi ed irrimediabilmente volubili che sta lentamente scivolando fuori di scena a favore di proprietà grigie, anonime e spesso con sede oltreoceano. Da anni ormai non ci sono più i Gaucci, gli Zamparini, i Campedelli, gli Spinelli, i Pulvirenti o i Matarrese ma neanche più i Berlusconi, i Moratti, i Della Valle a dominare le domeniche di stadi con le loro facce distorte dalla gioia e dalla rabbia come maschere d’una commedia. Quella immediatezza, tra presidente e la squadra, che per decenni ha dominato l’identità del campionato italiano e che ora sembra irrimediabilmente lontana, come se appartenesse ad un’altra epoca.
Un cambiamento copernicano al quale resistono alcune presidenze della Serie A, ad esempio Napoli e Lazio con i loro iconici e controversi proprietari, a segnalare quanto il campionato italiano però non potrà mai abbandonare una componente centrale del proprio DNA. Per quanto il calcio europeo ora imponga degli standard più elevati, allineati a quelli delle grandi aziende multinazionali, c’è ancora un forte sentimentalismo verso il presidente passionale, il presidente padronale. Le fughe in scooter di De Laurentiis o le trattative creative di Lotito rappresentano un ideale ancora radicato nella mentalità del tifoso italiano, che vive il calcio spesso in modo totalmente irrazionale e identitario. Solo qualche mese fa una frangia di tifosi della Roma pregava proprio Ferrero di acquistare la squadra giallorossa perché volevano un presidente romano e romanista al contrario dell’attuale presidenza statunitense.
E tale idea platonica di presidenza, pronta a rovinarsi pur di portare un campione nella propria piazza e far sognare i tifosi, è l’esatto prosecuzione di quell’imprenditoria italiana che è più vicina all’artigianato contabile, fatto di bilanci chiusi con gli spicci trovati nelle tasche dei vecchi cappotti, fino all’inevitabile fallimento. Sono tante le storie negli ultimi anni di club, grandi e piccoli, che hanno sofferto di crisi irrimediabili a causa anche di società scellerate, gestite come aziende familiari anche quando tutti segnali chiedevano di invertire la rotta. Invece in molti hanno continuato dopo il tempo massimo, credendo di poter sostituire la serietà con la passione. Crimini d’amore, ma pur sempre crimini, che hanno avuto come vittime i tifosi delle squadre che hanno visto nei casi peggiori svanire nel nulla le loro amate società e dover ripartire dalle serie cadette.
Dall’altra parte anche le nuove proprietà, internazionali e moderne, hanno dimostrato che la loro azione non è sempre così limpida quanto il loro profilo vorrebbe lasciar suggerire. I problemi economici dell’Inter dopo lo scudetto e la recente inchiesta sulle plusvalenze della Juventus hanno dimostrato che non esiste un vero modo per operare secondo le regole e per molti versi il calcio italiano sembra essere inchiodato ad una malagestione che poi ne inficia la qualità e serietà del prodotto.
Dobbiamo quindi chiederci se il calcio in Italia sia mortalmente radicato a tali distorsioni non importa quale vestito indossi, che sia la facciata neutra e opaca delle multinazionali o la passione sanguigna dei presidenti in tribuna, o ci sia un’altra via più sostenibile che tenga conto anche del ruolo dei tifosi, come si sta facendo con successo in Inghilterra. O se morto un Viperetta se ne farà presto un altro.