É giusto trattare problemi di salute mentale come infortuni fisici?
Il ritiro di Simone Biles alle Olimpiadi ha riaperto il dibattito sulla salute mentale nello sport e di come se ne parla
28 Luglio 2021
Martedì sera sulla pedana Olimpica della ginnastica di Tokyo, Simone Biles si è ritirata dalla competizione durante la finale a squadre. Durante la gara nell’ultimo esercizio era atterrata in uno squat così profondo che quasi si sedette sul tappetino, e poi fece un grosso passo avanti. Il suo punteggio, di 13.766, è stato il risultato più basso delle tre atlete statunitensi, in quel momento seconde dietro la Russia. Appena finito l’esercizio Biles è stata scortata fuori dalla pedana da un allenatore, ed è tornata indossando una tuta bianca sopra il body. La notizia è si è sparsa velocemente: Biles si stava ritirando "per un problema medico”. Poche ore dopo la fine della competizione, Biles ha deciso di parlare direttamente negando un infortunio fisico: “Non mi sono infortunata, si tratta solo di una ferita al mio orgoglio.” Questa mattina, la federazione di ginnastica americana ha annunciato anche il ritiro dal concorso generale individuale con una nota: «Dopo ulteriori valutazioni, Simone Biles si è ritirata dalla finale del concorso generale. Sosteniamo con tutto il cuore la decisione di Simone e applaudiamo il suo coraggio nel dare priorità al suo benessere. Il suo coraggio mostra, ancora una volta, perché è un modello per così tanti».
La vicenda di Biles ha proiettato in un Olimpiade densa di problemi, il tema ingombrante della salute mentale legata allo sport rilanciando un discorso molto simile a quello con cui Naomi Osaka si ritirò dal Roland Garros pochi mesi. Il contesto di Biles è tuttavia diverso: è difficile trovare paragoni sportivi quando sei univocamente considerata l’atleta più forte della storia del tuo sport, che da quando hai sedici anni ti trovi a rappresentare una nazione, una minoranza e di fatti anche uno sport a livello globale. In molti hanno sostenuto la decisione di Biles - e di Osaka precedentemente - dicendo che è finalmente arrivato il momento di prioritizzare la salute mentale rispetto ad una competizione sportiva, eppure è chiaro che molto di questo appoggio sia retorico e performativo visto il diverso trattamento riservato ad altri casi, in cui non ci sono superstar nel mezzo e la tentazione del gossip, del clickbait e la smania di usare parole come depressione - che è una condizione clinica - ha avuto la meglio.
We are with you, Simone.
È sbagliato azzardare giudizi sulla scelta di Biles, che appena lunedì - il giorno prima della finale - aveva scritto su Instagram che sentiva “the weight of the world” che la schiacciava. È impossibile sapere cosa passa nella testa delle persone, a maggior ragione quando si tratta di superateti che hanno una storia personale e professionale con cui è difficile avere cose in comune. Quello che invece bisogna migliorare è il modo in cui trattare a livello pubblico episodi come quelli di Osaka e Biles, ma anche di Josip Iličić per guardare alla Serie A, evitando retorica e polemica. In molti hanno suggerito di equiparare la salute mentale a quella fisica, trattando di fatto un “infortunio” mentale come uno fisico.
Il problema sta nell’oggettivizzazione dello stesso: un infortunio è quantificabile a livello medico - gravità e tempi di recupero - mentre un episodio di depressione, attacco di panico o ansia cronica sono legati alla parte più intima della persone e quindi a condizioni che spesso sono inconoscibili e sicuramente non giuste da divulgare. La scelta dell’Atalanta tuttavia di non parlare mai apertamente dei - ancora oggi presunti - problemi di salute mentale di uno dei suoi calciatori, ha alimentato rumors, dicerie e articoli di giornali che non hanno giovato al dibattito pubblico sulla salute mentale nel calcio italiano e probabilmente neanche al diretto interessato. Il pubblico in questo caso ha diritto di conoscere il perché e il per come Biles ha deciso di ritirasi?
La risposta si trova nell’atleta e nella misura in cui si sente di condividere la scelta. Il caso di Ilicic è più complesso perché un dipendente di un club ha obblighi e divieti nei confronti della società per cui lavora.
Il punto sta nel trovare l’equilibrio tra trattare pubblicamente temi così personali tali da giustificare un ritiro o un temporaneo allontanamento, e il rispetto per tematiche di cui è giusto anzi è necessario parlare di più, in maniera più approfondita e - aggiungo - con un po’ più di sensibilità. Oggi è ancora difficile a livello pubblico trattare gli atleti con un prospettiva tridimensionale, come persone che hanno una personalità complessa, fragile ed esposta a pressioni molto difficile da provare nella vita comune.