Come le serie TV stanno cambiando il modo di vedere lo sport
Drammi sportivi, storie biografiche e la cultura del ''non detto''
21 Aprile 2020
Con le principali leghe professionistiche del mondo ferme a causa della pandemia, la fase che avrebbe dovuto portare lo sport ad essere raccontato attraverso un nuovo stile comunicativo ha subìto una brusca accelerazione: in assenza di un evento/partita veicolabile attraverso media mainstream, le docuserie a tema sport sono il prodotto di riferimento in un contesto storico molto particolare.
Il messaggio è arrivato forte e chiaro nel momento in cui ESPN e Netflix hanno deciso di anticipare l’uscita di ''The Last Dance'': in un momento in cui la narrazione tradizionale non ha motivo di esistere, tanto vale anticipare i tempi ed offrire al pubblico un assaggio di quel che sarà nel prossimo futuro.
Se da un lato non si può non concordare con chi ritiene che i programmi di approfondimento tradizionali siano ormai stati superati da quella realtà fatta di blogger in grado di spiegare e analizzare ogni aspetto in maniera molto più intuitiva di tanti addetti ai lavori, dall’altro non è detto che il futuro debba essere per forza nel racconto del ''dietro le quinte''. Chiedersi se una serie come ''All or Nothing'' diventerà una nuova forma di intrattenimento complementare alla partita è lecito; rispondersi di sì sarebbe fuorviante, soprattutto in relazione ad alcuni difetti e mancanze strutturali di un prodotto relativamente acerbo, soprattutto per quel che riguarda la cultura europea.
Prima di addentrarci nello specifico bisogna però fare delle differenziazioni tra ''The Last Dance'' e qualsiasi altra serie che ha seguìto da vicino le cavalcate e/o le disavventure delle squadre di calcio: nel primo caso raccontare storie di rapporti personali conclusi male o di comportamenti non propriamente etici non porterebbe conseguenze ai diversi ''brand'' protagonisti (Michael Jordan - Chicago Bulls - Phil Jackson), considerando anche il fatto che si tratta di una sottile operazione di marketing che non potrebbe scalfire in alcun modo i sei titoli vinti ormai 25 anni fa; nel secondo caso dobbiamo partire dal presupposto che si parla di docu-serie che sono state utilizzate dalle società stesse per aumentare la propria brand-credibility con l'obiettivo di non andare ad intaccare i grossi interessi che gli gravitano attorno, creando però un prodotto finale relativamente poco credibile.
Prendiamo ad esempio la serie sul Manchester City realizzato da Amazon Prime Video; all’inizio l’idea di innovazione si è sostanziata nel racconto come mezzo di fidelizzazione oltre il campo: mostrare cosa accade all’interno dello spogliatoio di una dei club più glamour dell’ultimo decennio ha fatto in modo che i tifosi vivessero in maniera ancor più esclusiva, simbiotica e totalizzante il rapporto con la propria squadra, facendoli sentire parte integrante di un mondo che, prima di allora, avevano vissuto solo parzialmente. Il resto lo ha fatto il fascino ed il carisma esercitato dalla figura di Pep Guardiola, perfettamente a suo agio davanti alla macchina da presa e teatrale al punto giusto per quel che riguarda espressioni e movenze in ogni singolo fotogramma.
Tuttavia, alla lunga, la sensazione che ha prevalso è quella del ''non detto'', della realtà mostrata fino a un certo punto in favore di un'esaltazione che andrebbe in contrasto con lo spirito di una produzione di questo tipo: ''Il docu-spot offre un compromesso, prendere o lasciare: io ti porto dentro, ti faccio vedere gli spogliatoi, le case dei giocatori, le stanze del potere, gli interni del centro sportivo; tu in cambio rinunci ad un racconto completo, scomodo laddove serve che lo sia, e ti accontenti di vedere le cose che funzionano'', ha scritto Simone Torricini, evidenziando la mancanza che accomuna ''All or Nothing: Manchester City'',''First Team: Juventus'' o ''Boca Juniors Confidential'': un racconto che finisce con l’alterare la percezione dei fatti per adeguarsi alle logiche del pubblico di riferimento, deviando dai binari del realismo e dell’oggettività per finire in una dimensione retorica insita nel blasone di certi club, che doveva essere superata in considerazione delle potenzialità delle singole storie dei protagonisti.
Da questo punto di vista un notevole passo in avanti è stato fatto con ''Sunderland ‘Til I Die'', serie Netflix che ripercorre la stagione 2017/2018 dei ''Black Cats'' dopo la rovinosa retrocessione dell’anno precedente. Quella che doveva essere una gigantesca operazione di marketing sullo sfondo di un trionfale ritorno in Premier League, si è trasformata nel nuovo parametro di riferimento dello storytelling calcistico: contrariamente alle previsioni, il Sunderland ha vissuto una seconda stagione consecutiva all’insegna dello psicodramma collettivo e dell’epica alla rovescia, retrocedendo in League One e costringendo la produzione a cambiare in corsa prospettive e percezioni della narrazione. Tuttavia la scelta di mostrare tutto nonostante la strada dell’auto-celebrazione non fosse più percorribile, si è rivelata una carta vincente: ''Sunderland ‘Til I Die'' riesce a raccontare alla perfezione la natura più cruda e vera del calcio, soprattutto nel momento in cui si concretizza nell’umoralità dei tifosi e nell’imponderabilità del destino che la condiziona.
Un realismo ''duro e puro'' che Netflix ha replicato con successo in ''Last Chance U'' – in cui si raccontano le vicessitudini dei giocatori dell’East Mississippi Community College, riprendendo le tematiche dell'occasione e delle aspettative troppo alte di giocatori e allenatori – e dal quale si è discostato, con alterne fortune, in ''The English Game'' in cui a dominare sono gli aneddoti raccontati attraverso la messinscena piuttosto che l'accuratezza e la completezza storica.
In attesa di capire come e quanto ''The Last Dance'' cambierà il modo di intendere e raccontare lo sport oltre lo sport, l’idea è che le serie di questo tipo debbano proseguire sulla strada di una narrativa genuina senza filtri o distorsioni sul filone ''branded content oriented'', per provare a colmare la distanza che le separa da prodotti meno innovativi ma maggiormente aderenti alla realtà che intendono raccontare.