Quanto è difficile essere Ronaldinho?
Lo stile di un'icona che non è stata ancora rimpiazzata completamente
13 Marzo 2020
In un articolo pubblicato su FourFourTwo nel gennaio 2018, Chris Flanagan scrisse che «Ronaldinho ha danzato al suo ritmo, il ritmo dello joga bonito, per tutta la sua carriera. Forse è questo il motivo principale per cui è stato amato in tutto il mondo, non solo a Barcellona o in Brasile: ha ispirato una generazione perché non era solo un grande calciatore ma uno che si divertiva ad essere un grande calciatore».
Non esiste probabilmente espressione migliore per definire il modo in cui Ronaldinho è riuscito a diventare la prima vera icona del calcio globale e globalizzato dell’era moderna, anticipando Messi e Cristiano Ronaldo. È una questione di legacy, prima ancora che di perfezione algida e chirurgica o di continuità ad altissimi livelli: rispetto ai due androidi cui ha passato il testimone, si può dire che Ronaldinho è stato il più forte del mondo “solo” per due anni dei cinque trascorsi in Catalogna. Ma lo è stato in un modo unico, genuino, puro, irripetibile, perfettamente aderente all’ideale di calcio come divertimento e intrattenimento: e, da questo punto di vista, Ronaldinho è stato, è e sempre sarà, l’intrattenitore per eccellenza, divertito e divertente allo stesso tempo. Uno che, come ha scritto Francesco Paolo Giordano su Rivista Undici, «ha cambiato il calcio, gli ha dato un’immagine nuova. Tutti volevamo essere Ronaldinho, perché tutti provavamo per ore – elastico, sombrero o espaldinha che fosse – quello che lui faceva in campo. Se ci riuscivamo, allora potevamo dire di essere forti. Ma per lui tutto quel repertorio di numeri da giocoliere non era abbellimento, era il suo modo di fare calcio», in un’unione tra utile e dilettevole e tra possibile e impossibile che poteva essere soltanto sua. Al punto da rendere assolutamente plausibile l’idea di una “crossbar challenge” diventata virale su YouTube in un’epoca in cui l’aggettivo virale non era proprio dei video.
Ma l’iconografia del Gaucho era, anzi è, anche una questione di stile dentro e fuori dal campo, con una serie di dettagli estetici riconosciuti e riconoscibili, come e più delle sue signature moves più celebri, a scandirne le varie fasi della carriera. Uomo Nike fin dai tempi in cui si rivelò al mondo con il favoloso gol al Venezuela nella Copa America 1999, Ronaldinho ha calzato tutti i tre modelli che hanno segnato il primo decennio del XXI secolo: le “Mercurial Vapor” di prima generazione nella prima rete con la maglia del Barca al Siviglia – il boato che seguì è ancora oggi nella top 3 dei rumori più forti mai registrati al Camp Nou –, le “Total 90” negli ultimi fotogrammi di uno dei commercial simbolo di una generazione, le nuove “Tiempo” che, con e grazie a lui, diventano “Touch of Gold” al Bernabeu nella seconda occasione (la prima era stata con Diego Maradona) in cui i tifosi del Real si sono alzati in piedi per applaudire un numero 10 in blaugrana.
Ed è proprio per questo suo essere immaginifico che Nike, dopo avergli dedicato una delle ultime signature boots realmente associabili ad un singolo giocatore – le “R10” dal layout vintage e dalle cuciture laterali in rosso, arancione e giallo, a rappresentare, rispettivamente, la famiglia, la musica e la felicità – lo ha omaggiato con una vera e propria linea di abbigliamento personalizzata, sul modello dello streetwear pensato per le stelle del basket NBA. La connection non è casuale: “Dinho” è stato il primo calciatore a sdoganare quel tipo di star system con un modo di vestire più vicino alla cultura americana che a quella europea. E, quindi, polsini e headband a raccogliere le treccine modello Allen Iverson sul campo; maglie rigorosamente di due taglie più grandi (meglio se accompagnate da gigantesche e vistose collane d’oro), felpe con il cappuccio, bandane e snapback fuori, in una personale e innovativa reinterpretazione del fusione tra l’hip-hop e uno sport culturalmente e filosoficamente.
Si tratta di un esperimento che, ancora oggi, non è stato possibile ripetere con nessun altro calciatore di grande livello. E il motivo è sempre lo stesso: in un momento storico in cui tutti i grandissimi si somigliano un po’ tutti in quella loro sovradimensionalità quasi “costruita", manca un testimonial unico nel suo genere, che sia in grado di accendere la fantasia dei tifosi con il suo essere diverso dagli altri. Uno da continuare a veder giocare per ore anche dopo la partita solo per il puro piacere di farlo, per poi tornare a casa felice pensando che il calcio possa essere ancora così. Uno come Ronaldinho, che possa essere Ronaldinho sempre, comunque e dovunque. Anche in un carcere paraguaiano: attualmente detenuto insieme al fratello presso la Agrupación Especializada de la Policía Nacional ad Asuncion per una brutta storia di passaporti falsi, starebbe ricevendo numerose offerte dalle squadre dei detenuti che partecipano al torneo di calcetto della prigione. Con una sola “regola d’ingaggi”, stabilita di comune accordo tra i capitani: Ronaldinho non potrà in nessun caso fare gol ma solo passare la palla a un compagno perché realizzi la rete. Come quando, da bambini, si accettava qualsiasi compromesso pur di avere in squadra il più forte di tutti. Spesso solo per il piacere di vedergli giocare a calcio nell’unico modo in cui il calcio andrebbe giocato.