Josip Iličič e il teorema di Gasperini
Breve storia del modo in cui l'allenatore dell'Atalanta è riuscito a decifrare il talento dello sloveno
29 Gennaio 2019
Gasperini non riusciva a venirne a capo. Continuava a guardare quella tripletta sul suo iPad e si chiedeva perché, perché, perché.
A Zingonia tutto taceva. Anche Hateboer, di solito l’ultimo a lasciare il centro di allenamento, era andato via da un’ora abbondante. Gasperini era solo, sotto la luce ronzante di un neon che faceva da sottofondo ai suoi dubbi. I capelli ingrigiti dal tempo e dall’avventura all’Inter ma lo sguardo ancora convinto. Seduto su una delle panchine dello spogliatoio, Gasperini stringeva forte l’iPad e mandava indietro il video fino al primo gol. Una, due, tre volte. Il magazziniere entrò per portare via le ultime cose ma venne stoppato dalla mano rugosa del Gasp: “Lasciami solo, poi ci penso io”.
Non alzò neanche lo sguardo, i suoi occhi erano di un colore a metà tra il nero e l’azzurro. Gasperini, per l’ennesima volta, schiacciò sul tasto play. E la magia cominciò di nuovo.
Stregato, estasiato, un eroinomane dopo l’ennesima dose: Gasperini era diventato dipendente da quella tripletta contro il Sassuolo (da subentrato) e non riusciva più a smettere di guardarla in maniera compulsiva. Non aveva cenato e non aveva fame, non aveva bevuto e non aveva sete. L’unica cosa di cui aveva bisogno era una soluzione, chiara, decisa, matematica. Era la seconda tripletta in mezza stagione, dopo tutto. Una spiegazione scientifica doveva pur esserci.
Quello che stava guardando era lo stesso mancino indolente della giornata precedente, lo stesso che sarebbe sceso in campo nella giornata successiva? Cosa poteva scattare nella testa del giocatore per farlo rendere al massimo, ma solamente a intermittenza? Quale era l’interruttore?
Gasperini mandò indietro, di nuovo, e riguardò il secondo gol.
Era dal termine della partita contro il Sassuolo che non riusciva a togliersi dalla testa quel pensiero. I giocatori lo avevano visto più strano del solito, ma avevano preferito non dir nulla, tanto in campo i risultati arrivavano lo stesso.
Ilicic, dal canto suo, notava una strana diffidenza nello sguardo del suo allenatore: lo sloveno sentiva addosso il peso dello sguardo del mister a ogni allenamento. Quando lo sloveno si voltava per incrociare gli occhi dell’allenatore li trovava sempre lì, fissi, vacui, interrogativi e severi. Faceva davvero paura.
Gasperini mandò indietro di nuovo, e guardò il terzo gol.
Un’altra dose, un’altra estasi. Poi quel senso di vuoto che si prova quando perdi qualcosa e non capisci perché. Gli salì su una rabbia nuova, faticò a controllarsi, voleva scagliare via l’iPad ma si limitò a calciare via una borraccia. Gli venne il fiato corto quasi subito, si appoggiò al grande tavolo al centro dello spogliatoio e notò la bozza con le tattiche per la partita successiva e qualche foglio bianco sparso qua e là che si confondeva col bianco del tavolo. A tentoni ne afferrò qualcuno: aveva bisogno di scrivere, di rendere concreto il problema, di affrontarlo nero su bianco.
Stappò un pennarello con la bocca e sputò via il tappo, poi prese un foglio e sopra scrisse a caratteri cubitali:
TALENTO
Lo posò da un lato, poi di nuovo, su un foglio diverso:
ASPETTATIVE
E ancora:
INCOSTANZA
Non aveva altro da scrivere. Queste erano le uniche tre parole che aveva per descrivere il giocatore Josip Ilicic, nato il 29 gennaio 1988 a Prijedor, in Slovenia. Gasperini si passò una mano tra i capelli e digringnò i denti. Diede un colpo a mano aperta sul talento, uno sulle aspettative, uno sull’incostanza. Schiacciò quei tre pulsanti immaginari nella speranza che accadesse qualcosa, ma non successe nulla. Si udirono solo i rintocchi dei suoi colpi per tutto lo spogliatoio.
Gian Piero Gasperini, nato a Grugliasco trent'anni prima, si sentiva esplodere, il suo respiro si fece più corto, gli occhi si allargarono, ancora più blu, ancora più neri. D’un tratto gridò disperato, con tutto il fiato che aveva in corpo, facendo volare via i fogli che caddero a terra.
Gasperini era sconfitto. Sedette di nuovo sulla panca, in lacrime. Stanco, sfinito, distrutto. Gettò distratto lo sguardo verso i fogli e vide che si erano disposti a terra in maniera stranamente precisa: formavano un triangolo retto preciso, con la scritta TALENTO che cadeva in diagonale mentre INCOSTANZA e ASPETTATIVE se ne stavano lì, dritte e impassibili.
Fu lì che ebbe l’illuminazione. Il suo sguardo si accese improvvisamente come le luci del neon, il suo cervello prese a ronzare, tutti gli ingranaggi partirono all’impazzata. L’ormai irriconoscibile Gasperini scattò in piedi, raggiunse il tavolo, prese il pennarello e un altro foglio e scrisse:
“L’area del quadrato costruito sul talento di Josip Ilicic è equivalente alla somma delle aree dei quadrati costruiti sulla sua incostanza e sulle mie aspettative”.
Guardò il foglio, e in quel preciso istante tutto gli fu chiaro: l’essenza di Ilicic era racchiusa in quel teorema, un’operazione matematica paradossale, che riesce solamente in alcune occasioni. Gasperini capì che Ilicic era il talento incostante che smarcava tre quarti della squadra avversaria e metteva il pallone sotto al sette, e allo stesso tempo era anche quel giocatore indolente che deludeva le sue aspettative. Un’equazione sbilenca e meravigliosa, come un calcio dato a una borraccia, come tre fogli che cadono a terra e ti lasciano attonito a pensare che se Ilicic fosse diverso, più costante, più continuo e incisivio, semplicemente non sarebbe Ilicic.