La società dei rigoristi prevedibili
Il rischio, il gioco e la scienza: un saggio breve di Matteo Bettini sul significato dei rigori
30 Gennaio 2019
I rigori sono uno dei momenti più drammatici ed evocativi del gioco del calcio.
Sono una sfida dentro alla sfida, il confronto impietoso e sproporzionato tra due individui. Lo squilibrio nella probabilità di successo è la chiave della tensione dentro il rigore: l'outcome più probabile è il gol ovvero l'evento più importante del calcio, il resto è l'eccezione. Anche chi non si è mai trovato davanti al dischetto di un rigore riesce ad empatizzare con i due esseri umani che sì trovano in quella penosa situazione che ne lascerà uno soltanto vivo. Per questi ed altri motivi ai rigori sono stati dedicati canzoni, poesie e libri: oggi siamo orgogliosi pubblicare su nss sports questo saggio breve firmato da Matteo Bettini sulla semiotica del tiro da 11 metri.
(Filippo D'Asaro, editor-in-chief nss sports)
La società dei rigoristi prevedibili
Contro la previsione e il successo assicurato
di Matteo Bettini
Gioco, rischio, previsione, incertezza, sconfitta o vittoria e la ripetizione di questo ciclo che operiamo all’infinito. Ma anche calcio, e come un tiro da undici metri possa diventare un modello di sana imprevedibilità da applicare alla vita di tutti i giorni. Parliamo di calcio di rigore, come gioco e momento di incontro tra due entità, e di rigoristi, attori “inventivi” ed eroi dell’imprevedibilità.
Il gioco
Il gioco è un’attività umana al pari del pensiero o della tecnica. La sua capacità di proiettarci in un mondo parallelo a quello fisico, per uno specifico lasso di tempo, ha determinato grande interesse e impegno nella costruzione di regole e scenari più o meno complessi. Il gioco è metafora di conflitti, conquiste, viaggi e altre situazioni appartenenti al reale. Giocare diventa quindi un vera e propria simulazione per fornire modelli di interazione e interpretazione riutilizzabili nella vita vera, aiutando a sviluppare i processi di decisione intersoggettiva. Ma proprio il fatto che costruisca talvolta scenari verosimili o modellati a partire dalla realtà, fa sì che i giocatori si relazionino tra di loro e agiscano con piena serietà e consapevolezza delle loro scelte, ispirandosi a quello che avrebbero fatto nella loro vita vera. Analizzeremo quindi aspetti e scenari della società a partire da un gioco, per di più molto semplice: il calcio di rigore.
Il calcio di rigore
Il calcio, come tutti i giochi, ha delle regole che ne definiscono la validità: il rigore è una di queste. Non approfondiremo in merito a quando viene utilizzato, ma lo estrarremo da quanto succede prima e dopo lo tratteremo come gioco in sé stesso. Ma perché il rigore? Analizziamo la natura dialogica del calcio di rigore inteso come modello di relazione uno a uno, applicabile nella vita reale al di fuori dal sistema-gioco e come modello di relazione e comunicazione, ben lontano da quelli odierni dettati dal mondo digitale.
Il calcio di rigore é un’azione transformativa, cioè trasforma il momento da potenza ad atto, estraniandolo dal flusso temporale degli eventi. Se la partita è determinata dallo scorrere del tempo ed ha una fine prestabilita, il calcio di rigore ha una vita propria, come se fosse una parentesi riflessiva, una vera e propria sospensione temporale: la scelta di un contendente e la risposta dell’altro. Per questo motivo il calcio di rigore catalizza l’attenzione di molte persone contemporaneamente per la sua natura spirituale, di attesa, di botta e risposta, di scommessa, di dubbio e successivamente di svelamento. Consideriamo la parte dialogica tra i due ruoli: da una parte il tiratore con il pallone, a undici metri dall’obiettivo, cioè la porta; sistema il pallone sul dischetto, un segno circolare posizionato per indicare univocamente la posizione esatta da cui tirare, poi solitamente si allontana, di spalle o guardando il portiere oppure guardando altrove. Dall’altra parte il portiere che decide dove buttarsi e se incrociare lo sguardo del primo per intuirne le intenzioni. I due protagonisti tendono in ugual modo a massimizzare i loro obiettivi, i quali però sono opposti e non intersecabili: la vittoria di uno implica il fallimento dell’altro. Si chiama gioco a somma zero e non prevede pareggio o situazioni di equilibrio nel risultato, solo un vincente e un perdente.
Il rigore perfetto
Se nelle interazioni sociali tendiamo a seguire delle regole per massimizzare i risultati, spesso anche nei giochi facciamo lo stesso, utilizzando manuali e trucchi per vincere e assicurarci un buon risultato. Il calcio di rigore non è riuscito a sfuggire a questa logica di ottimizzazione e si possono trovare numerosi articoli di esperti che provano a calcolare il cosiddetto rigore perfetto e definitivo: in poche parole una sorta di formula della felicità, una guida pratica della vittoria sicura. Un tiro oltre i 105 chilometri orari, con una rincorsa di 5-6 passi angolato a 20/30 gradi all’angolo alto della porta, dovrebbe garantire al rigorista di segnare: da questa definizione vengono però esclusi gli elementi di distrazione, definibili “erronei” cioè che rallentano il processo e lo rendono meno produttivo. Hanno cercato di calcolare l’infallibilità, non prendendo in considerazione però l’unico vero fattore che ha reso celebri certe notti di calcio: l’imprevedibilità, il caso, l’unico vero motivo per cui ancora guardiamo 22 giocatori calciare un pallone. Nel 1988 viene scritto un articolo scientifico sul calcio di rigore da W. Kuhn: Penalty Kick Strategies for Shooters and Goalkeepers.
Anche lui, come gli altri studiosi di cui sopra, provò a definire il rigore perfetto: un tiro mediamente veloce (20,83 millimetri al secondo) impiega 600 millisecondi per raggiungere la porta. Un tiro molto veloce, 27,77 millimetri al secondo, impiega 400 millisecondi per raggiungere la porta. Kuhn dimostrò che il portiere che voglia salvare un attacco alla porta a più di 20,83 millimetri al secondo deve iniziare il proprio movimento al momento dell’impatto tra piede e palla o prima. Pur volendo fornire una sorta di manuale pratico al giocatore a difesa della porta, ci si accorge subito da questa definizione di come il tiro non venga visto come atto trasformativo compiuto da un uomo, quanto di un atto deterministicamente causato. Viene menzionato l’effetto dell’azione, il movimento della palla, senza mai accennare all’attore che l’ha prodotto: il rigorista. Viene quindi mutata l’ontologia del calcio di rigore, viene distolta l’attenzione dalla componente umana, consentendo quindi di trattare quest’esperienza come un fenomeno prettamente fisico e matematico, composto da numeri e variabili. Inoltre, secondo questa definizione, anche se il portiere fosse un vero e proprio campione, il suo gesto sarebbe frutto di una scelta istintiva, una scommessa, frutto del caso o di una previsione che solo al 50 per cento può essere intuita.
Rischio e previsione
In un gioco come questo, sia per la possibilità di errore proprio, sia per previsione dell’altro, il rischio a cui si è esposti è altissimo. Certamente si tratta di un rischio ludico, ma proprio la natura coinvolgente e dai tratti realistici del gioco, rende la scelta meno leggera. Proprio parlando di rischio possiamo definire il legame tra questo atto sportivo e il concetto di alterità: se si pensasse al rigore come un incontro, un bivio o un dialogo tra un uomo e un Altro (uomo o cosa o situazione che sia), con a disposizione solo informazioni intuitive e nessuna certezza su quello che accadrà, risulterebbe difficile la scelta, il dialogo, l’azione. Scegliere può implicare l’errore e non sempre è facile da accettare, sopratutto laddove l’identità di gioco è rappresentazione diretta della nostra persona.
Nel gioco del calcio esiste un sistema di regole che ne determina una durata limitata nel tempo e dei confini spaziali e d’azione, ma il ruolo del giocatore è molto vicino ad essere rappresentazione diretta della persona reale: il corpo e le abilità coincidono con le reali dell’atleta e le conseguenze dell’esito della partita ricadono sulla loro vita in modo diretto o indiretto. Non esiste, in questo gioco come in tutti gli sport, un vero e proprio stacco tra dimensione ludica e dimensione reale, si è di fronte ad un atto performativo, ad uno spettacolo teatrale senza copioni. Nei giochi virtuali invece siamo solo burattinai di un personaggio fittizio e spenta la consolle possiamo dimenticarci delle sconfitte subite. Molti sistemi di interconnessione sociale, simili a dei giochi in prima persona, sono strutturati da algoritmi matematici a partire da quello che ci piace oscurando tutto ciò che è “altro”, costruendo una bolla di sicurezza e omogeneità di contenuti. Questo certamente ci aiuta e facilita nella creazione di un pensiero, cancellando però tutti gli altri percorsi che non abbiamo scelto (cfr. Han 2018). La previsione del pensiero umano e dei suoi gesti è centrale nella ricerca tecnologica e sempre più software sfruttano questi calcoli matematici cercando di discretizzare ciò che non sarà mai discretizzabile: l’uomo.
Se la prevedibilità è ormai data per certa nei nostri processi mentali, uscendo dai sentieri prestabiliti e andando “fuori-pista” si potrebbe andare incontro a qualcosa di diverso, anche di pericoloso, ma anche di incredibilmente vero. Nelle piattaforme social online è quindi facile annullare ciò che non è di nostro gusto o non ci interessa, così anche nei videogiochi la sconfitta sembra sparire ed essere sempre evitabile. Sbagliare ed essere sconfitto aiuta a creare relazioni e identità stabili, sbagliare significa agire e subire una reazione, quindi misurare il proprio raggio d’azione e capire qualcosa anche di noi stessi. L’eterna vittoria e sopratutto il rage-quitting, l’abbandono del gioco dopo frustranti sconfitte, rinuncia tipica dei giochi virtuali, non hanno una natura costruttiva, aumentano solo la percezione di noi stessi annullando gli altri. Dopo aver sbagliato un rigore davanti a sessanta mila persone e aver reso vani novanta minuti di gioco, o anche una stagione intera, forse in quel momento vorremmo poter selezionare “quit the game”, ma questo non può succedere, e non deve succedere. Se potessimo davvero fuggire da quell’istante, elimineremmo completamente il concetto e la sensazione di sconfitta trasformandoci in esseri fragili davanti ad insuccessi e fallimenti più grandi, uccidendo gli anticorpi capaci di farci reagire anche alle più piccole disfatte della vita di tutti i giorni (cfr. Han 2018). Il calcio di rigore per sua natura non prevede gratificazione per chi fallisce: ti mette davanti agli occhi chi ti ha sconfitto e ti lascia solo davanti al tuo errore. Il rigorista quindi, astraendolo dalla realtà ludica, occupa una posizione in cui deve scegliere cosa fare davanti ad una situazione dubbia unendo tecnica e fortuna, previsione e caso, calcolo ed inventiva.
Il ruolo del caso
Partendo dalla classificazione dei giochi che fece Roger Caillois, dividendoli in attività in cui predomina il ruolo della competizione, del caso, del simulacro e della vertigine, possiamo dire che il calcio di rigore ha una natura particolare. Se, come nel caso del macro-gioco in cui è inserito (il calcio) verrebbe intuitivo inserirlo all’interno delle competizioni (Agon), a un secondo sguardo è evidente l’aspetto di casualità (Alea). È sì un’azione cosciente e frutto di abilità e allenamento, ma nasconde dei fattori non pianificabili, imprevedibili, difficilmente concatenabili in una relazione causa-effetto.
L’uomo non è mai in completo controllo del suo gioco e forse proprio per questo ricava piacere nel ripeterlo anche infinite volte. Il gioco per essere tale deve essere replicabile e il penalty, come le partite di calcio in generale, sono una ripetizione di quelle precedenti e un’anticipazione di quelle che verranno. Come un rituale segue delle regole e procedure pre-determinate, ma anche se la sua natura è di tipo ripetitivo, ogni atto appare come l’originale, l’unico atto (cfr. Critchley 2016). È proprio grazie all’incertezza del risultato, al dubbio di come andrà a finire, che un calcio da undici metri è sempre uguale ma allo stesso tempo tutte le volte diverso. Molto spesso nel calcio si fatica a credere al ruolo che occupa il caso. Spesso gli spettatori sono convinti che il giocatore possa avere controllo su tutto, anche laddove non c’è spiegazione razionale. Così facilmente i giocatori passano da essere eroi, giustizieri, miti a diventare presto capi espiatori, traditori, criminali.
Si fatica a pensare che ci sia, seppur in piccola parte, uno spettro di possibilità casuali e non dettate dalla nostra volontà. Il calcio di rigore risulta essere l’apice aleatorio nella disciplina del calcio, accentuando l’importanza della scelta rispetto alle doti sportive. Possiamo definire il rigore come somma di un atto volontario, studiato e situato e di un fattore esterno, inconscio, non preventivabile, dettato dal contesto, dalla partita, dalla natura umana del rigorista, da un’idea.
Proprio in questa prospettiva, ritorna il concetto di caso, come uno spiraglio che ci fa scorgere un sentiero secondario, un’occasione per uscire dal percorso più ovvio. Il caso quindi è un fattore che non può essere tradotto in un algoritmo, e che ci dà la possibilità di ragionare in maniera laterale, facendo cambiare punto di vista e lasciando spazio ad atti inventivi, necessari per l’interazione umana e capaci di trasformare un gesto in un’unica ed irripetibile esperienza (cfr. Finnegan 2009).
Ed è solo grazie al caso se possiamo anche solo immaginare che un tiro smorzato e centrale, dopo una violenta rincorsa, possa ingannare un esperto portiere e indurlo a tuffarsi su un lato della porta e che poi possa, il pallone, prendere il volo lentamente ed insaccarsi in rete sorvolando l’uomo ormai battuto.
C’è però anche un’altra eventualità in questo pazzo gesto: che il portiere avversario non cada in errore e che invece di lanciarsi rimanga fermo a bloccare la palla sulla linea di porta, guardandoti negli occhi e sorridendo perché ha capito le tue intenzioni senza nessuna previsione certa.
Viva il caso, viva il rischio.