Vedi tutti
hero
hero

L’ufficio personale di Giuseppe Zanotti, nella fabbrica di San Mauro Pascoli, è una specie di stanza delle meraviglie: sugli scaffali svettano tacchi di ogni altezza tra cui quelli disegnati da Kanye West per il suo primo show di Parigi («Mi presentò la sua ragazza di allora, Amber Rose, voleva che trasformassi il suo corpo in questa scarpa», racconta), alle pareti centinaia di fotografie scattate nel corso di vent’anni e attraverso tre o quattro continenti ritraggono il designer insieme al gotha dell’hip-hop e del cinema internazionale - visi celeberrimi incontrati in giro per il mondo o venuti a visitarlo nel suo placido angolo di Romagna. Proprio qui hanno avuto la propria origine le scarpe che hanno calcato i più importanti red carpet del mondo: in una fabbrica che nei primi anni ’90 contava forse una quindicina di dipendenti. «Molte delle persone che c’erano allora sono ancora qua adesso», racconta Giuseppe Zanotti orgoglioso di quella famiglia allargata che è diventata un’industria e di cui conosce a menadito ogni palmo. Ma il suo mondo è legato a doppio filo alla musica, conosciuta quando, giovanissimo e annoiato dalla provincia, faceva il DJ nelle radio libere: «Era un'avventura incredibile. Non c'era il telefonino, non c'era Internet, non c'erano neppure i soldi per comprare i dischi. Si registrava la musica anche dalla radio, si tagliava e incollava il nastro con lo scotch e poi si metteva in onda il proprio brano. Tutte sperimentazioni molto creative, proprio come realizzare una collezione. Molto diverso da quanto facciamo oggi che siamo guidati da sin troppe richieste commerciali. All'inizio della mia carriera, pensare e creare una collezione era molto liberatorio: mi sentivo liberato di un peso, il peso di dover far qualcosa, a prescindere che uscisse bene o male. Partivo dallo stesso sentimento di mancanza e di vuoto: creavo perché avevo l’impressione che mancasse qualcosa, nella musica prima e nel mondo della calzatura poi. Quel vuoto andava colmato». Forse è una questione di destino manifesto o forse è stato «il desiderio della cosa che non c’è, quel buco vuoto e nero» che doveva essere colmato da una nuova visione a spingere Zanotti a mettersi in proprio, nei primissimi anni ‘90.

Una ricerca continua di novità che venne riconosciuta fin dal primo momento. Gli esordi del brand, in effetti, non si svolsero secondo il medesimo copione che gli altri giganti del lusso avevano seguito. «Scelsi di non presentare a Milano», ricorda, «perché non ero uno stilista accademico ed ero anche il primo che faceva scarpe fuori dagli schemi». Il designer romagnolo optò invece per New York che all’epoca iniziava a emergere come la più eccitante e originale terra vergine della moda con la grande fioritura di designer e brand di lusso autoctoni. «Ho presentato a New York perché mi vergognavo di farlo a Milano. Non avevo abbastanza autostima. A New York venne una persona che non conoscevo: Andrè Leon Talley (Vogue US). Vide questo sandaletto, il mio primo sandalo, e lo adorò». Il suo stile era ed è ancora il frutto di quei lontani ma fondamentali giorni da DJ, quando curava le playlist di radio locali e si alimentava di tutta quella linfa che la musica poteva offrirgli. Zanotti ricorda i giorni del punk come se fossero finiti ieri, si muove con confidenza tra le sonorità rock, Janis Joplin e Patti Smith e poi la scena hip-hop degli anni ’90, The Notorius B.I.G. e l’underground newyorchese dove si fabbricavano nuovi sound non meno anarchici di quelli dei suoi primi idoli punk. E ama tanto la musica in sé quanto la rottura che quella musica rappresenta – un altro simbolo di quella ricerca di nuovo, di quell’horror vacui che lo ho portato sin dagli inizi a conquistare nicchie di mercato che il resto dell’industria, per rigidità o per snobismo, si ostinava a ignorare. «Ogni collezione è una playlist: racconta da un lato i desideri del pubblico, dall’altro le tue esperienze. Nelle scarpe metto sempre un po’ di me, del mio passato e del mio codice. Alla fine, la cosa importante non è solo il brano che suoni, ma anche la storia che racconti». Nel corso della sua lunghissima e variatissima carriera, Giuseppe Zanotti è diventato una presenza fissa nella cultura della moda grazie a «un’energia trasversale» che l’ha portato a muoversi su mercati e rivolgersi ad audience che il resto dei big player dell’industria avrebbe iniziato a frequentare solo un decennio più tardi: star dell’hip-hop, giocatori NBA, autorità dell’Estremo Oriente. Tutte clientele che furono le prime ad accogliere a braccia aperte lo stile dissacrante del brand, tanto nel campo della calzatura femminile che in quello delle sneaker, di cui Zanotti fu pioniere. L’amore per la rottura e l’attitudine alla ricerca portò, intorno al 2010, all’idea delle sneaker. «Preparato dalla musica a moto continuo di rivoluzione/evoluzione, non sono stato sorpreso dalla frattura incredibile delle sneaker all’interno del mondo del lusso. È stata la sneaker il grande nemico di un certo tipo di moda, il grande nemico della manifattura tradizionale - ma questa è la vita e ogni tanto bisogna buttar via tutto, bruciare tutto per ricominciare». Ciò che incarnò il simbolo di questa “deviazione” venne ancora una volta dalla musica: l’uniforme punk carica di spille e catena, le borchie del chiodo e le fibbie degli stivali di MJ in Bad e in qualche modo, come un eco non troppo lontano, gli strass e i tessuti metallici dei costumi glam rock di David Bowie/Ziggy Stardust. «Tutti questi spunti hanno creato una genetica che per me potrebbe continuare», spiega. La prima e storica sneaker rimane comunque la Double Zip. «La zip, così come la placca o i puntali, erano tutti parte della memoria che mi portavo dal mondo elegante delle scarpe da donna. E quindi ho introdotto l’elemento decorativo. Per me sneaker è un termine improprio, troppo generico. Generalmente le sneaker sono associate a chi produce scarpe tecniche sportive perché è così che sono nate. Noi partiamo dalla scarpa a fondo gomma, da giorno che può essere più o meno sportiva e mettiamo quegli elementi che fanno parte della nostra storia: le pietre, le placche, gli strass, i ricami… All’inizio fu uno scandalo. Kanye fu il primo che mise pubblicamente la Double Zip. Io le presentai poi a Sarah Andelman di Colette. Nel tempio parigino delle tendenze non erano mai entrate le sneakers. Spiegai a Sarah che stavamo parlando di una calzatura molto speciale che di lì a poco avrebbe riscritto le regole della moda». Le vendite partirono prima in Europa e a seguire esplosero anche in America.

Oltre al mondo dell’hip-hop, anche le dive pop e R’n’B furono suoi alleati. Alleati potenti considerata la precoce adozione del format collaborativo di Zanotti, oltre che la sua apertura e la sua ospitalità nei confronti di star all’epoca escluse dalla moda e che invece trovavano la sua porta sempre aperta, venendo letteralmente a trovarlo dopo aver lasciato le proprie magioni californiane per la campagna romagnola. Una volta uno sceicco arabo in viaggio in Europa mandò un jet privato a Bologna per farsi recapitare quanto prima la nuova colorway di una scarpa che amava. Di queste e altre storie così poco comuni, ma a cui Zanotti dà un tocco così umano e caloroso raccontandole, le tracce abbondano. Tra gli scaffali del suo ufficio si trova ogni tipo di memorabilia: regali da sceicchi, un poster con dedica e cuoricini di Britney Spears, tonnellate di libri, di bozzetti, di prototipi firmati dalle principali star del mondo e mai prodotti – una serie di nomi impressionante e illustre che il signor Zanotti snocciola con simpatia, un aneddoto dopo l’altro, come quando «Virgil fece una foto ad un dettaglio del nostro caminetto di Montenapoleone e questa specie di medusa bianca diventò poi la cover di Cruel Summer» o come, mentre era a casa di Jennifer Lopez, versò per sbaglio una tazza di caffè sul tappeto della sua immacolata camera da letto («Ero un po’ agitato e ho fatto un casino», ricorda) o ancora la bellissima scena di lui che porta Kanye West, Jerry Lorenzo e Virgil Abloh a pranzare in trattoria discutendo, in tempi non sospetti, di quanti pochi designer di colore esistessero nell’industria della moda ma anche quando Kim Kardashian si presentò nel suo casale di campagna con un guardaroba intero. Dialogare con gli abitanti dell’Olimpo non l’ha inorgoglito, anzi, parlando con lui queste grandi e inavvicinabili star si trovano a fare i conti con il mondo quotidiano in cui vive il resto dell’umanità. E per il futuro? La legacy di Zanotti si compatta, dato che il figlio di Giuseppe, Riccardo, sta affermando sempre di più il proprio ruolo all’interno dell’azienda, portando sul tavolo creativo del brand i gusti e le conoscenze sviluppate dopo aver assistito fin dall’infanzia al lavoro del padre. Del resto, guardando l’enorme galleria di foto che decora le pareti dello studio personale di Zanotti Senior, si può vedere che suo figlio è stato sempre al suo fianco, insieme a tutte le star che hanno legato la propria fama alla sua. Oggi Riccardo si occupa principalmente delle city shoes del brand, sotto la direzione creativa del padre. Guardando fuori dalle mura familiari, invece, la pandemia ha sicuramente dato una scossa al mercato che ora si ritrova immerso in un caos generalista: «Penso che a un certo punto, dopo questo grande disordine, arriverà un ordine perfetto. I messaggi diventeranno più chiari e netti». Servono insomma distinzioni, serve poterci vedere chiaro. Certo, anche lo scenario dell’industria è cambiato, forse a causa di un capitalismo sempre più strategico, di un algoritmo che ha tolto umanità a quello che prima era un lavoro per certi versi spensierato. «Chi ha sempre cercato di vedere la moda come esperimento creativo oggi è troppo vincolato: budget, fatturati e via dicendo. Tutto questo prima c'era ma era una conseguenza. Noi ci divertivamo e il fatturato cresceva – era facile. In questo momento vediamo che gli input che arrivano dai mercati rendono tutto meno libero e meno divertente. Il creativo fa patti col diavolo continuamente. Ma se il patto è troppo a senso unico finisce per smussare la tua natura». Per il futuro serve allora «una nuova formula» che prenda, per continuare con la metafora musicale, «i brani che ascolti da anni e li remixi per creare un linguaggio più interessante». Ma serve comunque una misura, un calcolo preciso e responsabile per non uscire fuori dal proprio ambito spinti da fame o avidità. «Abbiamo offerto troppo sul mercato. Troppi stanno facendo tutto. Ci sono brand di alta moda che si divertono a fare sfilate anche se i fatturati li fanno con le sneaker. I sarti non vendono più abbigliamento: vendono scarpe, vendono borse. Questo mercato è congestionato dal prodotto, l’offerta è troppa rispetto alla richiesta. Quindi un po’ di ordine è necessario: questa playlist va rifatta».


Credits:

 

Photographer: Valeriya Polivanova

Photographer Assistant: Luca Chiapatti

Interview: Lorenzo Salamone