At the end, Kobe Bryant
NSS - New Sport Side
02 Dicembre 2015
Kobe Bryant è stato il Michael Jordan di quelli nati nella seconda metà degli anni '80. Il Michael Jordan di quelli nati all'inizio dei '90 (come me) è stato (anzi, è) invece LeBron James.
Michael Jordan è il simbolo di una generazione cestistica, ma non solo. Michael Jordan è quel tipo di giocatore che catalizza tutto l’interesse del mondo sportivo e non che lo circonda, quello che tutti i brand vogliono mettere sotto contratto, quello che anche i non tifosi di basket conoscono.
E se avete quell'età lì, il vostro Michael Jordan non può che essere Kobe Bryant. Ma Kobe Bryant è stata forse anche la cosa (chiamarlo giocatore è riduttivo) che più si è avvicinata a Michael Jordan, così come lo sta facendo LeBron, con dalla sua “l’aggravante” di esserne così ossessionato da restare incollato all’immagine di His Highness per sempre.
Dopo tanti anni passati a pensare che la sua lunga rincorsa al mito non sarebbe mai finita, Kobe Bryant ha detto basta. L’ha fatto con una commovente lettera pubblicata da The Players’ Tribute, una lettera indirizzata al basket, l’origine del suo disturbo ossessivo-compulsivo verso la vittoria, verso la maniacale perfezione. Una perfezione a cui si è avvicinato in maniera concreta, toccandola con mano in più d’un occasione. È diventato grande con Shaq e senza, l’ha fatto al fianco di Phil Jackson, padre agonistico anche di Michael Jordan. Quello vero.
Il suo percorso sul parquet è stato quasi netto, e i riconoscimenti raggiunti sono lì a testimoniarlo. Ma cos’è stato Kobe Bryant oltre che la più simile reincarnazione di un Dio? Fuori dal palazzetto, Kobe si è dato altrettanto da fare e noi oggi vogliamo rivivere la sua vita "commerciale e stilistica" (passateci il termine) più che la sua carriera, ammesso che le due cose, per un ossessivo-compulsivo del gioco, possano davvero essere scisse.
8 o 24
Il ritiro di Kobe, per quanto doloroso, non è certo imprevisto. Sono anni che si paventa l’ipotesi del suo abbandono, anni che i suoi adepti cercano di prepararsi a convivere con l’idea di una NBA senza Kobe. Due anni fa, sul Bleacher Report, si discuteva su quale delle due jersey indossate da Kobe dovesse essere ritirata: la 8 o la 24?
La numero 8 coincide con le ultime uniformi classic dei Lakers, di quel giallo più ocra con i contorni bianchi e blu, e chi ha imparato ad innamorarsi di Kobe durante gli anni ’90, quando marcava Jordan, aveva ancora i capelli e intratteneva rapporti di odio e amore con Shaq, vorrebbe vedere la numero 8 appesa al soffitto dello Staples.
Ma per Kobe è il 24 ad avere un significato più alto. Il 24 è stato il suo numero all'high school - anche se il titolo l'ha vinto con la 33 - con il 24 sulle spalle soprattutto ha dimostrato al mondo di poter vincere anche senza Shaq, ha dimostrato al mondo di essere il miglior giocatore sulla piazza. Probabilmente finirà come previsto da Arash Markazi, «credo che Kobe sceglierà di far ritirare il 24, ma allo stesso tempo mai più nessun giocatore dei Lakers indosserà l’8».
La firma di Kobe
La caratteristica principale che accomuna tutti i grandi campioni, un po’ di tutti gli sport, è la precocità. Come Michael, come LeBron, così Kobe. Ancor prima di compiere 18 anni infatti, il figlio di Jelly Bean aveva già firmato il suo primo contratto milionario (48 milioni di dollari, per l’esattezza) con adidas.
O meglio, non tecnicamente, dato che le leggi americane vietano ai giocatori non professionisti di firmare qualsiasi contratto commerciale. La scelta di adidas di puntare forte su Kobe fu dettata dalla volontà del brand tedesco di colmare il gap che Nike aveva messo tra se e chiunque altro, grazie al ciclone MJ.
La prima signature shoe arriva però l’anno dopo il suo esordio, con le adidas KB8. Il matrimonio durerà 6 anni, e ogni anno sarà scandito da una nuova release, tra cui le futuristiche THE KOBE, targate 2000. La fine dell’avventura adidas, e l’inizio dell’egemonia Nike coincise con il peggior momento della vita sportiva e non di Kobe Bryant: le accuse di stupro di una hostess di un albergo in Colorado costarono a Kobe la gogna pubblica, così come l’annullamento di diversi contratti di sponsorizzazione tra cui McDonalds (per cui era stato All American solo l’anno prima, in una classe di 35 fenomeni dello sport a stelle e strisce) e la nostra Ferrero.
Nike tenne duro, e dal 2005 cominciò a produrre le Zoom Kobe, che dureranno 10 anni e seguiranno la costante evoluzione di materiali e stili di tutte le altre linee, restando sempre fedele all’idea originaria di come immaginare una scarpa indossata da Kobe. Funzionale, essenziale, sgusciante. “Serpentesca”, da Black Mamba.
Il vostro Michael
Quando si parla di Kobe Bryant in termini jordaneschi lo si fa certamente per la sua attitudine sportiva, ma non solo. Kobe – come dopo di lui Bron – rappresentò quel tipo di giocatore che, per carisma e ascendente sull’intero genere umano, passa una volta ogni 20 anni. Non deve sorprendere allora di come l’intera industria dell’endorsement impazzì alla vista del ragazzo di Philly.
Detto dei contratti sportivi, l’ingresso di Kobe tra i grandi venne accompagnato dai contratti di McDonalds (con il quale girerà un memorabile spot tv), Coca Cola (in particolare per la divisione Sprite), Spalding, Upper Deck (una sorta di Panini d’oltreoceano) e ancora Nintendo, che creerà una linea di videogame su di lui (la Kobe Bryant NBA Courtside) e negli ultimi anni Call of Duty (in quello che resta tutt’ora la sua più incredibile performance recitativa) e Turkish Airlines (nella saga di spot con Lionel Messi).
Un successo planetario, arrivato in Italia così come in Cina e in Sudamerica. Kobe Bryant è riuscito a imporre il suo marchio ovunque, e ciò che più sorprende è stata la sua capacità di farlo quasi esulando da tutto il circo mediatico che inevitabilmente gli si parava attorno. Kobe, come ad esempio successo a David Beckham, non ha lasciato che l’immagine si prendesse il giocatore, ma ha continuato ad allenarsi più duro degli altri, più a lungo degli altri, per raggiungere i numeri di Michael non suoi cartelloni pubblicitari, ma su quelli dello Staples Center. Il contorno è sempre stato per lui, per l’appunto, contorno, di più. L’obiettivo era il basket, il “caro basketball”.
Sing Kobe
E pensare che ai tempi del liceo Kobe Bryant sembrava avere anche un altro talento. In un lungo articolo dedicato proprio alla sua altra prospettiva lavorativa su Grantland, Thomas Golianopoulos parla della “segreta carriera da rapper di Kobe”. Un segreto di pulcinella a tutti gli effetti, che tuttavia potrebbe essere sfuggita a qualcuno. Prima che Kobe diventasse un all star, gli occhi e le mani della discografia statunitense gli erano già piombate addosso. A lui e al suo gruppo rap: i CHEIZAW (per la cronaca, l’acronimo sta per Canon Homo sapiens Eclectic Iconic Zaibatsu Abstract Words, una trovata in perfetto stile Kobe).
La Sony, nella figura del suo direttore operativo dell’epoca Steve Stoute gli aveva offerto un contratto che avrebbe dovuto tragettarlo verso la sua carriera solista. Se vi sembra strano tutto ciò, non stupitevi. Negli anni ’90 (dove in NBA succedeva letterlmente di tutto) i cestisti – di solito di estrazioni sociali simili a quelle dei rapper della old school americana – si dilettavano spesso a comporre rime e rilasciare dischi, forti di una popolarità enorme. “Shaq Diesel” di Shaquille O’Neal si certificò addirittura disco d’argento, mentre You Can’t Stop the Reign comparivano addirittura i feat. di Notorious BIG e Janet Jackson, e un diss allo stesso Kobe.
Chris Webber finì in top 10 di Billboard con la sua Gangsta Gangsta e anche Allen Iverson c’ha provato a più riprese. Attualmente la tradizione è continuata (molto bene) da gente come Marquis Daniels e soprattuto Damien Lillard.
La carriera di Kobe non prese mai il largo, e dopo il singolo K.O.B.E con Tyra Banks al ritornello, venne definitivamente accantonata per lasciar spazio al vero grande amore.
Quell’amore che si concluderà, alla fine, quest’estate. L’italiano Kobe, che dai suoi trascorsi giovanili nel nostro Paese ricorda a memoria la lingua, non continuerà a giocare tra i pro americani, tantomeno qui in Europa. La sua città, la sua Philadelphia (la stessa che ha tifato più per lui che per i 76ers in occasione delle gare casalinge) gli ha reso omaggio con una lettera audio che fa il paio con la sua.
Tutta l'NBA si è alzata in piedi a tributare il giusto omaggio al numero 24, il 33 della Lower Merion High School. Finirà per davvero stavolta, finirà con negli occhi il ricordo del secondo miglior perfezionista di sempre. Anzi, forse il primo. Perché se davvero vuoi solo pensare di scomodare il Re dal suo trono devi essere o tanto matto o tanto bravo. Oppure c’è una terza via: devi essere tanto Kobe.