"Ho paura di uscire": come affrontare il post quarantena
Per sconfiggere l'ansia di uscire e ritornare gradualmente alla propria quotidianità
05 Giugno 2020
Per molti la quarantena è stato un lungo periodo di tensione e solitudine. Anche chi è sopravvissuto serenamente a questi mesi di restrizioni potrebbe notare sensazioni di ansia, disagio e insicurezza nel tornare alla vita di tutti i giorni.
I fattori di stress causati dall’isolamento come paura ed ansia nel relazionarsi all’ambiente esterno, pigrizia mentale nei rapporti individuali, utilizzo del digitale per mimare la socialità, necessità e ansia di mantenere alta la produttività nello smart working, sono stati accompagnati da un bombardamento di notizie confuse e da un generale senso di smarrimento. Adesso che la fase 3 è iniziata, tutti si confronteranno con paure ed ansie diverse da quelle del lockdown, come la "sindrome della capanna" ed il burnout da smartworking. Alle prese con la vita quotidiana, abbiamo chiesto alla dottoressa Chiara Maiuri quali saranno le problematiche che appariranno durante il ritorno graduale alla normalità e come affrontarle.
Che cos’è la sindrome della capanna?
La genesi del nome viene dagli anni della febbre dell’oro, durante i quali i minatori venivano portati a vivere in capanne per mesi e mesi, fino alla fine della stagione di raccolta quando, al momento di ritornare alle proprie città, facevano una fatica immane a reinserire la propria quotidianità in un ambiente diverso dalla capanna. Il nome, riferito ai giorni d’oggi, richiama l’attaccamento ad un luogo specifico e la difficoltà di adattarsi nuovamente ad un ambiente diverso ed esterno: la casa in cui si è trascorso il periodo di quarantena le cui mura ci hanno protetto da ciò che accadeva fuori resta un posto sicuro ed allontanarsi crea timore. Non essendo patologica, la sindrome si risolve con il tempo ma occorre ricordare che abbiamo chiesto alla mente di attuare un’operazione di elasticità difficilissima, sconvolgendo la nostra quotidianità da un giorno all’altro, e dunque l’unica soluzione è uscirne per gradi. Non pretendere troppo da se stessi è la chiave di una ripresa sana e duratura. Soprattutto perché il mondo fuori è molto diverso da quello che avevamo lasciato.
Quali sono gli effetti tangibili che l’isolamento potrebbe aver causato nella socialità? Come vede la fase 3?
Gli effetti tangibili che l’isolamento porterà nelle vite quotidiane saranno sicuramente legati all’uso della tecnologia: se per molti smartphone e pc si sono rivelati dei veri e propri strumenti di connessione, per altri sono diventati una specie di simulazione della realtà virtuale. Basti pensare al trend di Animal Crossing scoppiato in quarantena, gioco di ruolo per Nintendo Switch che simula la vita sociale in una cittadina ideale, dove il player svolge task quotidiani per popolare il luogo ed è continuamente immerso in nuovi incontri e situazioni sociali. Il pericolo è che certe esperienze simulate abbiano impigrito la dinamicità sociale degli individui, rendendoli restii ad abbandonare la propria comfort zone virtuale.
Secondo la dottoressa Maiuri, un’altra problematica molto frequente nella fase 3 sarà il burnout da smartworking: conciliare la produttività lavorativa da casa e la propria vita personale, con ritmi e responsabilità diverse potrebbe causare un sovraccarico.
Lo smart working è una soluzione meravigliosa di cui sono grande fan, ma riconosco che non per tutti sia l’ideale: basti pensare banalmente ad una donna, mamma e lavoratrice, prima abituata a tenere il lavoro in ufficio e la vita privata a casa, che trovandosi priva del distacco tra i suoi “ambienti contenitori”, si trova ora in difficoltà. Nella fase tre spero che le aziende riusciranno ad alternare smart working e lavoro in ufficio, per ritornare alla socialità garantita dal posto di lavoro senza togliere autonomia alle persone. Nei limiti del possibile, in questi casi occorre ritagliarsi degli spazi, sia per le diverse necessità lavorative, che per se stessi. Parlare, sfogarsi se qualcosa non va e chiedere aiuto quando necessario ma soprattutto chiedersi “come sto?” ed inserire in agenda degli appuntamenti con se stessi sono pratiche che liberano dal pericolo di sovraccarico.
Come trovare il giusto equilibrio in una fase di graduale cambiamento e non sviluppare particolare ansia per il futuro?
È fondamentale rispettare i propri tempi, non pretendendo troppo da noi stessi ed accettare i propri sentimenti. Se sentiamo la presenza di disagio, è bene accogliere la sensazione senza spaventarsi ed agire di conseguenza, andando per gradi. Creando una routine giornaliera con piccoli obiettivi da raggiungere per arrivare ad un traguardo finale è un ottimo modo per riabituarsi senza troppa fatica alla quotidianità. La problematica è la paura di uscire? Bene, ogni giorno sarà nostro compito provare a fare un passo verso l’esterno, prima in balcone, poi in cortile, il giorno dopo lungo la strada di casa e via dicendo. L’importante è non arrendersi ed essere costanti nel percorso: avere cura per la propria salute significa anche capire che non siamo automi ed il nostro cervello ha bisogno di salire i gradini uno ad uno prima di raggiungere la vetta. Se il disagio persiste, nulla vieta di chiedere aiuto ad un professionista, anche per un paio di sedute che aiutino a comprendere il problema in modo guidato, per uscirne in modo consapevole e fare tesoro anche dell’esperienza negativa che si è vissuta.
Se in quarantena avessimo trovato il giusto ritmo per il nostro benessere, ed ora i ritmi frenetici della vita quotidiana ci schiacciassero e facessero sentire infelici, cosa potremmo fare per migliorare la situazione?
Gran bella questione. Occorre considerare che i nostri ritmi sono spesso imposti dalla socialità e dal lavoro, ma spesso anche da noi stessi. Se dimenticando la frenesia produttiva avessimo scoperto delle pratiche che ci rendono felici e ci mettono in contatto con noi stessi, forse vale la pena inserirle nella nostra quotidianità anche una volta tornati back on track con il lavoro. In fase tre, potrebbe essere un’ottima idea uscire dall’ufficio alle 19 anziché alle 20 e regalarsi una sessione di yoga, un momento pacifico al parco o darsi alla cucina per desaturare la giornata dallo stress lavorativo ed assaporare un momento di felicità. Il modo lo si trova, sempre. Sono in parte contenta se ci sentiamo infelici a tornare ai ritmi pre-Covid, perchè significa che abbiamo colto il bisogno di rallentare. Gran parte degli individui adulti che affrontano un percorso di psicoterapia hanno bisogno di rallentare, e non ci riescono. Questo periodo ci ha mostrato che possiamo essere produttivi lo stesso, andando più piano: intervallando lavoro e vere pause di sincero piacere, la testa funziona meglio ed è meno stanca, la qualità del lavoro aumenta e si vede.
Se più che paura si provasse "noia" nel tornare alle normali mansioni e ai rapporti umani: come non colpevolizzarsi ed accettarsi? Cosa porta a questa sottile forma di misantropia?
Non parlerei di misantropia, quanto di pigrizia mentale. Dobbiamo considerare che intrattenere relazioni sociali comporta un grosso dispendio di energie nella vita di tutti i giorni, che però il nostro cervello elabora in automatico. Uscire, parlare, ascoltare, immedesimarsi ed adattarsi ad altri ritmi sono tutte pratiche di cui solitamente non sentiamo il peso. Durante tre mesi di social distancing ci siamo un po’ disabituati, infatti le chiamate virtuali richiedono molto meno sforzo e attenzione dell’interazione vis à vis, quindi tornando alla socialità si potrebbe sentire un senso di fatica e spossatezza, concludendo che che i nostri amici sono noiosi e forse non ne vale la pena. In realtà non è vero, siamo animali sociali e nessuno è fatto per stare davvero da solo. Bisogna riabituarsi a questa moltitudine di stimoli e riscoprire il dare-avere benefico che scaturisce dai rapporti umani, e spronarsi gradualmente a tornare ad interagire. Fare una cernita delle relazioni non è mai cosa sbagliata se si sente disagio, ma farlo per pigrizia è un vero peccato.
Essere ipocondriaci e sottovalutare il rischio. Come trattare le diverse esigenze di chi è terrorizzato ad uscire, e di chi invece vuole darsi a party privati?
È necessario chiedere e dare rispetto, esprimere i propri sentimenti in ogni caso e parlare apertamente delle proprie paure. È sempre la soluzione, specialmente in amicizia. Se si è in una posizione neutrale e ci si rapporta con un amico ipocondriaco, avere un atteggiamento di ascolto e rispetto nei confronti della sua paura, magari aiutandolo ad aprirsi sull’argomento è l’atteggiamento giusto. Nella situazione di relazione con l’estremo opposto, il festaiolo, è bene agire e scegliere assecondando le proprie sensazioni e limiti, pretendendo rispetto, senza mettersi a rischio né sforzarsi di fare cose sopra la propria volontà per non deludere le aspettative. Questi estremi comunque rientreranno, quasi sicuramente. Se non dovessero farlo, sarebbe il momento giusto per chiedere aiuto ad un esperto.
Se invece fossimo noi protagonisti di un disagio?
La soluzione è cercare di capire perché viviamo una condizione marginale. Qual è il timore che giace dietro alla mia condizione, desiderio di strafare o paura ossessiva? Nonostante il rischio, perchè sento il bisogno di fare una festa? Per la paura che ricominci la quarantena? Ho paura di non avere più occasione di farla, di aver perso i contatti sociali? Senza farsi un'auto-analisi, basta capire cosa spinge il desiderio e cercare di risolvere il problema in un modo più sicuro, almeno fino a che il pericolo non sarà rientrato, per non mettersi e non mettere a rischio nessuno. Nel caso opposto invece, quello dell’ipocondria, occorre identificare le situazioni in cui possiamo avere il controllo e comportarsi ad hoc per sfruttarle al massimo. Posso proteggermi, indossare la mascherina, usare guanti e gel igienizzanti. Non posso controllare i contagi o i movimenti del virus, quindi diventa controproducente fissarsi su cose che non possiamo controllare ed è importante non farlo per non incorrere in complicazioni sui disturbi d’ansia già presenti in una situazione del genere. Andare dallo psicologo per identificare il problema non è una condanna a vita, magari può essere utile contattare un esperto anche per poche sedute al fine di rimettersi in pista e capire cosa c’è che non va.