Michael Bloomberg sta pagando degli influencer per fare campagna elettorale
Uno dei candidati alla guida del Partito Democratico ha adottato una strategia inedita per arrivare ai giovani
21 Febbraio 2020
L’influencer marketing si è infiltrato in tutti gli aspetti della pubblicità arrivando infine anche al mondo politico. Anche se da anni i politici utilizzano i canali social e i contenuti sponsorizzati per le proprie campagne elettorali, di recente in America uno dei candidati democratici ha adottato una strategia elettorale: pagare degli influencer per pubblicare dei meme a supporto della sua candidatura.
Michael Bloomberg, 78 anni, tre volte sindaco di New York e nono uomo più ricco del mondo, ha infatti assoldato un esercito social per promuovere la sua immagine fra gli elettori più giovani. Account come @GrapeJuiceBoys, @Tank.Sinatra e @fuckjerry hanno organizzato un “drop” collettivo e sincronizzato nella notte del 12 febbraio con tanto di hashtag per contenuti a pagamento, tag all’account di Bloomberg e un esercito di influencers a riempire la sezione commenti per far gonfiare l’engagement alla massima potenza. Le pagine di meme che hanno ricevuto richieste di paid contents possiedono collettivamente oltre sessanta milioni di followers, senza contare i micro-influencers reclutati attraverso Tribe. Per contrasto, l’NBA All-Star Game viene guardato da sette milioni di persone, gli Oscar da trentasette milioni e l’episodio finale di Game of Thrones da diciannove milioni.
Forse in Italia non se ne sente parlare abbastanza, ma negli USA Michael Bloomberg è una figura potentissima e controversa. Il magnate dell’informatica e della comunicazione ha infatti ricevuto pesanti e giustificate accuse da parte dei propri rivali politici durante il più recente dibattito televisivo dei candidati democratici: da quelle di sessismo (si dice che abbia detto una volta che se i terminali computer della sua azienda potessero praticare sesso orale, non ci sarebbe bisogno di assumere donne in azienda), a quelle relative alla pratica dello stop-and-frisk, ossia la sistematica perquisizione di possibili sospetti presto limitata ai soli individui di colore, fino alla sorveglianza a cui sottopose l’intera comunità musulmana di New York con l’aiuto dell CIA dopo l’11 Settembre, entrambe sfociate nel racial profilig. È facile capire come il miliardario non sia particolarmente amato dalle comunità afroamericane e musulmane e soprattutto dai giovani americani – i soggetti più “resistenti” alle tecniche di propaganda politica.
Michael Bloomberg sa come vendersi e sa anche benissimo che, dopo il primo term dell’amministrazione Trump, i segmenti più liberali della popolazione non amino l’idea di un nuovo multimiliardario al potere – un settantottenne bianco, mosso di certo da forti interessi politici ed economici e parte di quell’1% di privilegiati che possiede il 90% della ricchezza mondiale. Proprio per questo la sua strategia di promozione elettorale non può limitarsi ai media tradizionali e ai social (secondo la BBC le sponsorizzazioni di contenuti social sono nell’ordine di un milione di dollari al giorno) ma devono arrivare ai giovani, diventare virali. Già l’attuale presidente Donald Trump aveva cavalcato l’onda dei contenuti digitali sfruttando la forte presenza online del movimento di ultradestra Alt-Right, che si è sempre distinto dagli altri gruppi di suprematisti bianchi per il suo impiego di meme e simili contenuti virali per la propaganda dei propri messaggi politici. Attraverso Steve Bannon e il Breitbart News Network, un canale televisivo di estrema destra, proprio questi contenuti portarono un grande supporto a Trump che però, in ragione dell’aura di suprematismo che denotava il gruppo, se ne dissociò prontamente, causandone il graduale declino.
Se dal lato intellettuale bisogna riconoscere al team di Bloomberg di essere più media-savy e intelligente dei propri rivali, da quello politico una simile mossa di propaganda ha un che di distopico. Quella dei contenuti a pagamento è infatti una pratica promozionale efficiente e ormai standardizzata e ogni partito politico utilizza le sponsorizzazioni sui social per auto-promuoversi. Ma quando tante risorse economiche sono concentrate nelle mani di un singolo individuo, più ricco dello stesso Presidente degli Stati Uniti e di qualunque altro suo rivale, la sua capacità di penetrazione capillare in contenuti apparentemente innocui come i meme sfiora la manipolazione. Al di là di ogni possibile considerazione politica, però, vale la pena prendere atto di come i meme siano giunti essere “consumati” principalmente dalle fasce demografiche più giovani, diventando di fatto una possibile via d’accesso alla coscienza politica delle nuove generazioni. Vista in questa luce, la campagna messa in atto dal team di Bloomberg non ha precedenti e probabilmente aprirà la strada a un nuovo modo di presentare contenuti politici ai giovani.
Anche in Italia il leader della Lega, Matteo Salvini, è diventato famoso per aver imbastito massicce campagne social per aumentare il proprio supporto. Va comunque riconosciuto che, nonostante queste strategie abbiano in effetti ottenuto successo, il loro grado di sofisticazione tecnica è molto diverso. Se in America il team elettorale di Trump è stato in grado di canalizzare questi contenuti attraverso i palinsesti mediatici e quello di Bloomberg ha alzato il livello prendendo i social d’assalto attraverso pagine virali da milioni di follower e migliaia di micro-influencer, i politici italiani non sono ancora abituati a troppe sottigliezze e, considerato anche lo status socio-culturale del loro target elettorale, preferiscono attenersi alla pubblicazione di contenuti “grezzi”, crudamente familiari e carichi di semplicistici spunti polemici che li pongano sullo stesso piano di un pubblico non abituato né alle nuove forme dell’umorismo online né tantomeno all’universo culturale dei meme.